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martedì 17 agosto 2021

Due ruote in libertà da Amsterdam a Bruges (4 -11 agosto 2021)

 

 




Gli uomini sono interi nella loro intenzionalità.

Ciò che è interessante in un soggetto non è quello che fa,

è il modo in cui facendo abita il mondo.

(Bernard-Hénri Levy[1])

 

Via. Via, via da qui, in fuga dallo spazio ristretto che il biennio pandemico ha incurvato sugli orizzonti, fisici e mentali, di Milano trasformatasi in una città minerale e astratta. In fuga dalla paura e dall’odio che la paura genera. In fuga dalle giaculatorie da fine del mondo, dalle fandonie di minorati no-vax, ni-vax, pro-vax, dai plausi allo stato d’emergenza permanente. In fuga dall’oscurantismo. E in fuga dallo scientismo.  In fuga sì, ma col green-pass, passaporto aggiuntivo alla libertà.

La fuga è programmata in solitaria e con un mezzo pesante, ma a due ruote. Una solida bici olandese – da me rinominata Bonadur un omaggio a Bonaventura Durruti - che mantiene quel che promette: portarti a destinazione facendoti pestare duro sui pedali. La destinazione è Bruges, o Brugge, o ancora la Venezia del Nord, la città di Zenone in fuga dall’inquisizione e alla ricerca di sé stesso.

La partenza è fissata da Amsterdam – che se ne impipa alla grande di green pass e mascherine - la mattina del 4 agosto. In mezzo ci sono circa 400 km e 6 giorni di reticoli di piste ciclabili da percorrere a ruota libera.


In tasca, come guida, “Le città invisibili” di Calvino[2], che per prima cosa mi ricorda che Amsterdam è un “semicerchio rivolto a settentrione, coi canali concentrici: dei Principi dell'Imperatore, dei Signori”…sarà che non sono Messer Marco Polo, ma tra i canali concentrici perdo subito l’orientamento. Controllo la mappa, rifiutandomi di ricorrere all’aiuto del GPS, altrimenti ….i xè boni tutti. Così inizio a girovagare per Amsterdam centro e poi Amsterdam periferia, e poi ancora più in là e alla fine non so dove sono e quello che è segnato sulla mappa sembra non coincidere mai con il luogo in cui mi trovo.

Ma sono graziata dal dono della libertà dell’istante (hic et nunc) fatto di momenti di spassionata osservazione del paesaggio, di distacco da paure da sedare e dai bisogni da soddisfare. In quest’uscita dal mondo della routine per entrare nel mondo in plein-air, pedalando tra intrecci di canali trovo, perdo e ritrovo la mia strada decine di volte, sino ad arrivare a Gouda. 

Ufficialmente, circa 80 km dopo, anche se, di fatto, non ho alcuna certezza: presa da eroici furori ho deciso di non utilizzare aggeggi elettronici che contano chilometri, calorie e incitano a far meglio. Del resto proprio a Gouda, mi imbatto nel monito “Per Aspera ad Astra” e scambio due parolette con (il busto di) Desiderius Erasmus Roterodamus, che qui (forse nacque e) studiò, il quale per prima cosa mi rammenta di non fare mai “alcun conto di quei sapientoni che vanno blaterando”, né di curarmi di “coloro che a mo’ delle sanguisughe mostrano due lingue[3].

E così discettando, con Erasmo: se “chi odia sé stesso come potrà amare qualcuno?”; …se “chi è interiormente combattuto, potrà forse andare d'accordo con altri?”; …se, “potrà, chi è sgradito e molesto a sé stesso, riuscire gradevole ad un altro?”. Rassicurata poi di “con quanta previdenza la natura, madre e artefice del genere umano, ebbe cura di spargere dappertutto un pizzico di follia[4], il 5 agosto pedalo via da Gouda sotto un cielo mutabile più dei miei pensieri.



Per 60 chilometri vengo sferzata dal vento, infradiciata dalla pioggia, asciugata dal sole, insieme a qualche migliaio di anatre, aironi, cigni, farfalle, mucche e pecore. Nel frattempo mi perdo, mi ritrovo mi riperdo, vengo salvata dall’ennesimo smarrimento da due gentiluomini olandesi in bicicletta (che mi accompagnano a vedere i Mulini di Kinderijk, che sono così belli che l’UNESCO li ha posti sotto la sua tutela) e minacciata da un cigno piazzato in mezzo a una stretta ciclabile che si ostina a non lasciarmi passare. Nonostante il vento e la pioggia scelgo, tra le varie alternative, il percorso più lungo che si allunga ancora di più causa interruzione della ciclabile per lavori in corso. Interruzione che sarà causa di ulteriori smarrimenti e ritrovamenti, sino ad arrivare a Papendreck.

La mattina del 6 agosto lascio Papendrecht di buonora, prendo il ferry-boat arrivo ad una Dordrecht ancora addormentata. Dordrecht è così fascinosa che continuo a girarla e a rigirarla, fino a quando si sveglia apre i negozi, inizia a riempirsi di genti, di rumori e allora via, via ancora in fuga. Scortata, questa volta, da un vecchio ciclista olandese che quando mi ha visto esaminare perplessa la mappa ad un crocicchio si è offerto ad accompagnarmi sino al ferry-boat successivo.

E così eccomi nel Biesboch National Park, una fitta rete di fiumi, canali e ruscelli e isole fluviali, collegate da ciclabili disseminate di birdwatching (si possono osservare martin pescatori, aironi, garzette, le immancabili anatre e, se si ha fortuna, le aquile di mare dalla coda bianca…ma io non ho avuto questa fortuna). Il parco è noto per essere uno dei pochi bacini d’acqua dolce in Europa soggetto alle maree. Ancora una volta abbandono le mappe e mi metto a scorrazzare in libertà per il parco e dopo tanto firriare sui pedali arrivo al successivo ferry boat. Attacco subito bottone con una coppia di francesi e visto che abbiamo un pezzo di strada in comune da fare proseguiamo insieme per una decina di chilometri. Salutati i francesi mi aspetta l’ultima dozzina di chilometri ed io inizio a preoccuparmi perché si sta facendo tardi e, soprattutto, perché vengo investita da un vento fortissimo araldo di un fortissimo temporale. Tutto si fa scuro, mentre pedalo controvento sotto una pioggia battente, con gli occhiali appannati, sperando di non essermi infilata nella ciclabile sbagliata e chiedendo a Bonadur:

- Ma che ci faccio io qui? Eh che ci faccio?

Quando finalmente faccio il mio ingresso, con un’aria tapina e ruscellando acqua di dosso, nell’hotel di Willemstad, mi sorridono e mi dicono:

- Welcome to the crazy Dutch weather.

- Yess! Welcome! Anche quest’altra sessantina di chilometri è andata e ora non mi resta che asciugare le scarpe zuppe col phon ed esplorare la città fortificata a forma di stella dedicata a Willem I of Orange (in italiano Guglielmo I d’Orange, detto anche il Taciturno[5]), dopo il suo assassinio.



La quarta tappa mi dovrebbe portare al piccolo villaggio di Schuddenbeurs. Procedo dritta verso la meta, resistendo dal deviare il percorso, inseguita dagli acquazzoni e come sempre controvento. Ma poi accade che mi fermo a raccogliere le more e a annusare fiori di campo e la nuvolaglia scura mi raggiunge prontamente sferzandomi addosso vento e pioggia. Così riparto in sella a Bonadur, la quale forte della sua pesante stazza, rimane indifferente a tutte le raffiche di vento che sopraggiungono laterali e a strappi rabbiosi. E così, questa volta la tappa è breve: una cinquantina di chilometri e sono già arrivata. Parcheggio Bonadur al sicuro e passeggio a lungo in un bosco (in un’alternanza di sole, vento e l’immancabile pioggia) accompagnata da un cane con il quale discetto sull’ hisbodedus, il ripiegamento solitario su sé stesso.

Lunedì 9 agosto, lascio anche Schuddenbeurs, sotto un cielo incerto. Le mappe consigliano di prendere il ferry-boat, ma opto per la strada più lunga che attraversa il Parco Nazionale di Oosterschelde. Il parco è un universo di acqua, vento, mare e maree, in lontananza vedo i lunghi ponti delle dighe. Il mare e popolato da foche e focene e sorvolato incessantemente da gabbiani e anatre, sorvegliato da oche battagliere (più di quelle del Campidoglio) che mi inseguono starnazzando lungo una ciclabile solitaria lastricata da ostriche frantumate dalla caduta che gli riservano i gabbiani dopo averle ghermite, portante alte in volo e lasciante cadere al suolo per poi banchettare. Io spero solo che le ruote di Bonadur non vengano ostracizzate come Ipazia e continuo a pedalare sotto un vento che dopo avermi spinto avanti leggero ora mi si para contro come un muro. Sui ponti delle dighe riprende la pioggia e avanzo solo per virtù di testardaggine. Del resto, mi dico, mi trovo nella provincia dello Zeeland, ossia delle terre del mare, e acqua e vento qui sono a casa loro.


E così mentre mi arrivano echi di notizie sempre più drammatiche dal mondo di fuori: terre infuocate, guerre, profughi, e ancora contagi, chiedo ad un gabbiano che mi segue curioso, se l’umanità è ancora in tempo ad azionare quei freni di emergenza della Storia di cui parlava Walter Benjamin.

La risposta se l’è portata via il vento e con mille domande che mi si affollano in testa giungo anche nel capoluogo dello Zeeland: Middelburg (dopo una sessantina di chilometri buoni dalla partenza).

10 agosto: ultimo giorno di viaggio! Sono impaziente di arrivare a Bruges. 


Ho scritto al mio professore di Estetica del mio viaggio e mi ha risposto ricordandomi che “Bruges la morta”[6] è il titolo di uno dei libri più famosi ambientati a Bruges (o, in fiammingo, Brugge). Per me, però, Bruges rimane (letterariamente parlando) legata al personaggio di Zenone de L’opera al nero della Yourcenar[7] (dal libro è stato tratto anche un film con un’interpretazione magistrale di Gian Maria Volonté).  Sulle orme di Zenone visitai Bruges per la prima volta nell’agosto 1989 come penultima tappa di un viaggio in Inter-rail (l’ultima tappa sarebbe stata Parigi che festeggiava il bicentenario della Rivoluzione Francese) e che mi aveva portata a girovagare per mezza Europa, compresa una deviazione improvvisata a Budapest che allora era oltrecortina e complicata da raggiungere. Quel viaggio, con i suoi incontri, avrebbe cambiato per sempre la traiettoria della mia vita. Ma allora non lo sapevo e borbottavo lamentele e proteste sotto il peso dello zaino affardellato di scatolette di tonno del mio compagno di viaggio (che, dopo aver stipato il suo, aveva inopinatamente riempito anche il mio).


Bruges, quindi. In cammino, ma in bicicletta, per vedere se alla fine come Zenone potrò anch’io dire: Hic Sabrin. Me stessa.

Mancano gli ultimi 70 chilometri e Bonadur, dopo il passaggio sul ferry-boat che mi trasferisce dall’Olanda al Belgio, procede gagliardo, tra mare, canali, boschi. Bruges è vicina. Ma io allungo il viaggio. Mi allontano e poi mi riavvicino, per poi prenderla alla larga e alla lunga e infine arrivare a Bruges sotto un sole glorioso. Il viaggio a ruota libera nel vento è finito e la bicicletta si conferma metafora del disequilibrio infinito riparato in extremis[8]

 




Piccola appendice

Amsterdam - Bruges in bicicletta in solitaria secondo il sior Peron:

- Ciao papá sto facendo un giro in bicicletta da sola parto da Amsterdam e voglio arrivare fino a Bruges…

- Si, ma véto in salita o in discesa?

- Come in salita? Ma, ma … nei Paesi Bassi non ci sono salite.

- Non ghe xé salite?

- No, no li ho scelti proprio per questo.

- Aah, ma alóra basta dirlo che no ti si gnanca bóna!

- Come no?

- Ma ‘sta casa! Si no ti si bóna ‘sta casa.

- Ok, ok ti richiamo domani quando ho finito la tappa.

- Ma la tappa de doman xéa in salita? Se no …’sta casa.

Auguri

papà che ogni volta rintuzzi la mia hybris con due (due) parole






[1] Bernard-Henri Levy, Il virus che rende folli.

[2][2] Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori Editore.

[3] Erasmo da Rotterdam, L’Elogio della Follia, Feltrinelli.

[4] Ancora Erasmo da Rotterdam, L’Elogio della Follia, Feltrinelli.

[5] Guglielmo I d’Orange  guidò la liberazione dei Paesi Bassi dalla dominazione spagnola: https://www.treccani.it/enciclopedia/guglielmo-i-principe-d-orange-conte-di-nassau-detto-il-taciturno_%28Enciclopedia-Italiana%29/

[6] Georges Robenbach, Bruges la morta, Fazi Editore

[7] Marguerite Yourcenar, L’opera al nero, Feltrinelli

[8] David Le Breton, A ruota libera – Antropologia sentimentale della bicicletta, Raffaello Cortina Editore