Gli uomini sono
interi nella loro intenzionalità.
Ciò che è
interessante in un soggetto non è quello che fa,
è il modo in cui
facendo abita il mondo.
(Bernard-Hénri Levy[1])
Via. Via, via da qui, in
fuga dallo spazio ristretto che il biennio pandemico ha incurvato sugli
orizzonti, fisici e mentali, di Milano trasformatasi in una città minerale e
astratta. In fuga dalla paura e dall’odio che la paura genera. In fuga dalle
giaculatorie da fine del mondo, dalle fandonie di minorati no-vax, ni-vax,
pro-vax, dai plausi allo stato d’emergenza permanente. In fuga
dall’oscurantismo. E in fuga dallo scientismo. In fuga sì, ma col green-pass, passaporto
aggiuntivo alla libertà.
La fuga è programmata in
solitaria e con un mezzo pesante, ma a due ruote. Una solida bici olandese – da me rinominata Bonadur un omaggio a Bonaventura Durruti - che mantiene quel che
promette: portarti a destinazione facendoti pestare duro sui pedali. La
destinazione è Bruges, o Brugge, o ancora la Venezia del Nord, la città di Zenone
in fuga dall’inquisizione e alla ricerca di sé stesso.
La partenza è fissata da
Amsterdam – che se ne impipa alla grande di green pass e mascherine - la
mattina del 4 agosto. In mezzo ci sono circa 400 km e 6 giorni di reticoli di piste
ciclabili da percorrere a ruota libera.
In tasca, come guida, “Le
città invisibili” di Calvino[2], che per prima cosa mi
ricorda che Amsterdam è un “semicerchio
rivolto a settentrione, coi canali concentrici: dei Principi dell'Imperatore,
dei Signori”…sarà che non sono Messer Marco Polo, ma tra i canali
concentrici perdo subito l’orientamento. Controllo la mappa, rifiutandomi di
ricorrere all’aiuto del GPS, altrimenti ….i xè boni tutti. Così inizio a
girovagare per Amsterdam centro e poi Amsterdam periferia, e poi ancora più in
là e alla fine non so dove sono e quello che è segnato sulla mappa sembra non coincidere
mai con il luogo in cui mi trovo.
Ma sono graziata dal dono della libertà dell’istante (hic et nunc) fatto di momenti di spassionata osservazione del paesaggio, di distacco da paure da sedare e dai bisogni da soddisfare. In quest’uscita dal mondo della routine per entrare nel mondo in plein-air, pedalando tra intrecci di canali trovo, perdo e ritrovo la mia strada decine di volte, sino ad arrivare a Gouda.
Ufficialmente, circa 80 km dopo, anche se, di fatto, non ho alcuna certezza: presa da eroici furori ho deciso di non
utilizzare aggeggi elettronici che contano chilometri, calorie e incitano a far
meglio. Del resto proprio a Gouda, mi imbatto nel monito “Per Aspera ad Astra”
e scambio due parolette con (il busto di) Desiderius
Erasmus Roterodamus, che qui (forse nacque e) studiò, il quale per prima cosa
mi rammenta di non fare mai “alcun
conto di quei sapientoni che vanno blaterando”, né di curarmi di “coloro che a mo’ delle sanguisughe mostrano
due lingue”[3].
E così discettando, con
Erasmo: se “chi odia sé stesso come potrà
amare qualcuno?”; …se “chi è
interiormente combattuto, potrà forse andare d'accordo con altri?”; …se, “potrà, chi è sgradito e molesto a sé stesso,
riuscire gradevole ad un altro?”. Rassicurata poi di “con quanta previdenza la natura, madre e artefice del genere umano,
ebbe cura di spargere dappertutto un pizzico di follia”[4], il 5 agosto pedalo via da
Gouda sotto un cielo mutabile più dei miei pensieri.
Per 60 chilometri vengo
sferzata dal vento, infradiciata dalla pioggia, asciugata dal sole, insieme a
qualche migliaio di anatre, aironi, cigni, farfalle, mucche e pecore. Nel
frattempo mi perdo, mi ritrovo mi riperdo, vengo salvata dall’ennesimo
smarrimento da due gentiluomini olandesi in bicicletta (che mi accompagnano a
vedere i Mulini di Kinderijk, che sono così belli che l’UNESCO li ha posti
sotto la sua tutela) e minacciata da un cigno piazzato in mezzo a una stretta
ciclabile che si ostina a non lasciarmi passare. Nonostante il vento e la
pioggia scelgo, tra le varie alternative, il percorso più lungo che si allunga
ancora di più causa interruzione della ciclabile per lavori in corso.
Interruzione che sarà causa di ulteriori smarrimenti e ritrovamenti, sino ad
arrivare a Papendreck.
La mattina del 6 agosto
lascio Papendrecht di buonora, prendo il ferry-boat arrivo ad una Dordrecht
ancora addormentata. Dordrecht è così fascinosa che continuo a girarla e a
rigirarla, fino a quando si sveglia apre i negozi, inizia a riempirsi di genti,
di rumori e allora via, via ancora in fuga. Scortata, questa volta, da un
vecchio ciclista olandese che quando mi ha visto esaminare perplessa la mappa
ad un crocicchio si è offerto ad accompagnarmi sino al ferry-boat successivo.
E così eccomi nel Biesboch National Park, una fitta rete di fiumi, canali e ruscelli e isole fluviali, collegate da ciclabili disseminate di birdwatching (si possono osservare martin pescatori, aironi, garzette, le immancabili anatre e, se si ha fortuna, le aquile di mare dalla coda bianca…ma io non ho avuto questa fortuna). Il parco è noto per essere uno dei pochi bacini d’acqua dolce in Europa soggetto alle maree. Ancora una volta abbandono le mappe e mi metto a scorrazzare in libertà per il parco e dopo tanto firriare sui pedali arrivo al successivo ferry boat. Attacco subito bottone con una coppia di francesi e visto che abbiamo un pezzo di strada in comune da fare proseguiamo insieme per una decina di chilometri. Salutati i francesi mi aspetta l’ultima dozzina di chilometri ed io inizio a preoccuparmi perché si sta facendo tardi e, soprattutto, perché vengo investita da un vento fortissimo araldo di un fortissimo temporale. Tutto si fa scuro, mentre pedalo controvento sotto una pioggia battente, con gli occhiali appannati, sperando di non essermi infilata nella ciclabile sbagliata e chiedendo a Bonadur:
- Ma che ci faccio io
qui? Eh che ci faccio?
Quando finalmente faccio
il mio ingresso, con un’aria tapina e ruscellando acqua di dosso, nell’hotel di
Willemstad, mi sorridono e mi dicono:
- Welcome to the crazy Dutch weather.
- Yess! Welcome! Anche quest’altra
sessantina di chilometri è andata e ora non mi resta che asciugare le scarpe
zuppe col phon ed esplorare la città fortificata a forma di stella dedicata a Willem
I of Orange (in italiano Guglielmo I d’Orange, detto anche il Taciturno[5]), dopo il suo assassinio.
La quarta tappa mi
dovrebbe portare al piccolo villaggio di Schuddenbeurs. Procedo
dritta verso la meta, resistendo dal deviare il percorso, inseguita dagli
acquazzoni e come sempre controvento. Ma poi accade che mi fermo a raccogliere
le more e a annusare fiori di campo e la nuvolaglia scura mi raggiunge
prontamente sferzandomi addosso vento e pioggia. Così riparto in sella a
Bonadur, la quale forte della sua pesante stazza, rimane indifferente a tutte
le raffiche di vento che sopraggiungono laterali e a strappi rabbiosi. E così,
questa volta la tappa è breve: una cinquantina di chilometri e sono già
arrivata. Parcheggio Bonadur al sicuro e passeggio a lungo in un bosco (in un’alternanza
di sole, vento e l’immancabile pioggia) accompagnata da un cane con il quale
discetto sull’ hisbodedus,
il ripiegamento solitario su sé stesso.
Lunedì 9 agosto, lascio
anche Schuddenbeurs, sotto un cielo incerto. Le mappe consigliano di prendere il
ferry-boat, ma opto per la strada più lunga che attraversa il Parco Nazionale
di Oosterschelde. Il parco è un universo di acqua, vento, mare e maree, in
lontananza vedo i lunghi ponti delle dighe. Il mare e popolato da foche e
focene e sorvolato incessantemente da gabbiani e anatre, sorvegliato da oche
battagliere (più di quelle del Campidoglio) che mi inseguono starnazzando lungo
una ciclabile solitaria lastricata da ostriche frantumate dalla caduta che gli
riservano i gabbiani dopo averle ghermite, portante alte in volo e lasciante
cadere al suolo per poi banchettare. Io spero solo che le ruote di Bonadur non
vengano ostracizzate come Ipazia e continuo a pedalare sotto un vento che dopo
avermi spinto avanti leggero ora mi si para contro come un muro. Sui ponti
delle dighe riprende la pioggia e avanzo solo per virtù di testardaggine. Del
resto, mi dico, mi trovo nella provincia dello Zeeland, ossia delle terre del
mare, e acqua e vento qui sono a casa loro.
E così mentre mi
arrivano echi di notizie sempre più drammatiche dal mondo di fuori: terre
infuocate, guerre, profughi, e ancora contagi, chiedo ad un gabbiano che mi
segue curioso, se l’umanità è ancora in tempo ad azionare quei freni di
emergenza della Storia di cui parlava Walter Benjamin.
La risposta se l’è
portata via il vento e con mille domande che mi si affollano in testa giungo anche
nel capoluogo dello Zeeland: Middelburg (dopo una sessantina di chilometri
buoni dalla partenza).
10 agosto: ultimo giorno di viaggio! Sono impaziente di arrivare a Bruges.
Ho scritto al mio
professore di Estetica del mio viaggio e mi ha risposto ricordandomi che “Bruges
la morta”[6] è il titolo di uno dei
libri più famosi ambientati a Bruges (o, in fiammingo, Brugge). Per me, però,
Bruges rimane (letterariamente parlando) legata al personaggio di Zenone de L’opera
al nero della Yourcenar[7] (dal libro è stato tratto
anche un film con un’interpretazione magistrale di Gian Maria Volonté). Sulle orme di Zenone visitai Bruges per la
prima volta nell’agosto 1989 come penultima tappa di un viaggio in Inter-rail
(l’ultima tappa sarebbe stata Parigi che festeggiava il bicentenario della
Rivoluzione Francese) e che mi aveva portata a girovagare per mezza Europa,
compresa una deviazione improvvisata a Budapest che allora era oltrecortina e
complicata da raggiungere. Quel viaggio, con i suoi incontri, avrebbe cambiato
per sempre la traiettoria della mia vita. Ma allora non lo sapevo e borbottavo
lamentele e proteste sotto il peso dello zaino affardellato di scatolette di
tonno del mio compagno di viaggio (che, dopo aver stipato il suo, aveva
inopinatamente riempito anche il mio).
Bruges, quindi. In
cammino, ma in bicicletta, per vedere se alla fine come Zenone potrò anch’io
dire: Hic Sabrin. Me stessa.
Mancano gli ultimi 70
chilometri e Bonadur, dopo il passaggio sul ferry-boat che mi trasferisce dall’Olanda
al Belgio, procede gagliardo, tra mare, canali, boschi. Bruges è vicina. Ma io
allungo il viaggio. Mi allontano e poi mi riavvicino, per poi prenderla alla
larga e alla lunga e infine arrivare a Bruges sotto un sole glorioso. Il
viaggio a ruota libera nel vento è finito e la bicicletta si conferma metafora del disequilibrio infinito
riparato in extremis[8] …
Piccola appendice
Amsterdam - Bruges in bicicletta in solitaria secondo il sior Peron:
- Ciao papá sto facendo un giro in bicicletta da sola parto da Amsterdam e
voglio arrivare fino a Bruges…
- Si, ma véto in salita o in discesa?
- Come in salita? Ma, ma … nei Paesi Bassi non ci sono salite.
- Non ghe xé salite?
- No, no li ho scelti proprio per questo.
- Aah, ma alóra basta dirlo che no ti si gnanca bóna!
- Come no?
- Ma ‘sta casa! Si no ti si bóna ‘sta casa.
- Ok, ok ti richiamo domani quando ho finito la tappa.
- Ma la tappa de doman xéa in salita? Se no …’sta casa.
Auguri
papà che ogni volta rintuzzi la mia hybris con due (due) parole
[1] Bernard-Henri Levy, Il virus che rende
folli.
[2][2] Italo
Calvino, Le città invisibili, Mondadori Editore.
[3] Erasmo da Rotterdam, L’Elogio della
Follia, Feltrinelli.
[4] Ancora Erasmo da Rotterdam, L’Elogio della
Follia, Feltrinelli.
[5] Guglielmo I d’Orange
guidò la liberazione dei Paesi Bassi
dalla dominazione spagnola: https://www.treccani.it/enciclopedia/guglielmo-i-principe-d-orange-conte-di-nassau-detto-il-taciturno_%28Enciclopedia-Italiana%29/
[6] Georges Robenbach, Bruges la morta, Fazi
Editore
[7] Marguerite Yourcenar, L’opera al nero,
Feltrinelli
[8] David Le Breton, A ruota libera – Antropologia
sentimentale della bicicletta, Raffaello Cortina Editore