I
fatti della Città della Scrofa. O del Drago
Tra gli appunti scritti con una
calligrafia fitta, minuta e quasi indecifrabile contenuti in un vecchio
quaderno appartenuto ad una tal Zerlina da Foppa, oramai non più giovinetta, sono
state ritrovate alcune frasi che, a seguito di un faticoso esame di
decifrazione, si sono rivelate essere una copia - parziale e infedele - di un
fitto dialogo tra Marco Paulo (de confinio Sancti Iohannis Grisostomi) e –
nientechepopodimeno - il Gran Khan̄ Qūbīlāy. Il dialogo tra i due, è stato
in realtà trascritto da tale Italo Calvino, scrittore italiano nato a Cuba agli
inizi del ‘900, il quale a sua volta, sembra ispirarsi all’opera trecentesca di
un certo scrittore pisano, Rusticiano o Rustichelum (e di cui quasi tutto s’ignora
compresa la data di nascita e quella di morte), risalente agli anni della sua lunga
prigionia nelle mani della Repúbrica
de Zêna
(all’epoca rivale acerrima di quella di Pisa).
Nel dialogo calviniano, il giovin
Marc-Pol, mercante veneziano, descrive al sovrano usanze e costumi di città che
hanno tutte nome di donna. Sono chiamate anche Città Invisibili, perché di esse
non vi è traccia in alcun atlante. Secondo gli appunti fortunosamente ritrovati,
tutte queste città sembrerebbero ridursi a una sola (non Venezia come asserisce
l’Italo, ma): Milano, come scrive la sciura Zerlina. La quale di suo pugno
aggiunge che non solo la città sarebbe una sola e, per di più, meneghina, ma che
la data delle ambasciate del veneziano al sovrano, andrebbe sicuramente datata
nell’anno domini 2020.
Di seguito – salvi errori &
omissioni – si ritrascrivono fedelmente gli appunti della suddetta Zerlina.
***
La Storia narra che all’apice
della sua estensione l’orda de le genti del Gran Cane fûro a
lambire la terra d’Europa recando terrore e pistolenza nera. Improvvisamente
poi, si dice, che il Gran Can morì e l’Orda tosto si ritirò.
Alcuni, narran anche, che questo
Gran Signore non morì, ma si rese invisibile e improvvisamente riapparve
nell’anno domini di scarsa grazia 2020.
Dapprima – come sempre – s’imbestiò
in Cina, poi con la sua Orda – in un vìdiri e uno svìdiri – si palesò con gran
scempio in terra Longobarda e vi si insediò – per restarvi - nel suo bel centro mediolanensi: la città
mastra della Scrofa. O del Drago.
Sappiate ora che di questa città,
gli abitanti han perso il conto delle sue distruzioni e ricostruzioni e ai
visitatori si mostra appollaiata sotto un cielo incomprensibile, che gravita
intorno a una grande chiesa, fiorita di grigio e di lichene.
La città è solita
sorprendere i viaggiatori nelle nebbie delle notti serene. [NdT: Per questo è detta anche la Nebbiosa]. Se interrogati, i più dirovvi che la
città sia brutta e laida e ne enumerano le brutture in facile comparazione
della grande bellezza di Vinegia et Florentia et la Città Eterna. Altri vi
parleranno delle sue contrade belle e doviziose e delle sue genti, industriose
et operose in ogni cosa. Innumerevoli son poi quelli che l’hanno prontamente
scordata percioch’è anonima e vocata alla mutazione incessante, come la pelle
del suo Drago Tarantasio. Solo a pochi, pare, abbia lasciato ascoltare i
battiti del suo cuore; mentre i più si sono impegnati a studiarne il fegato,
filtrante di ogni ideologia, di ogni tragedia, di ogni massa di gente, che da
secoli qui si riversa grazie a quella famosa promessa contenuta nell’editto di
Ariberto da Intimiano, suo Vescovo e Signore. Da ultimo, si dice, che la città
– non più bagnata dal Mar Gerundo – oggi flotti su innumerevoli canali, fiumi e
fonti, che non si possono mirare – se non per brevi tratti – percioch’è sono
stati interrati dai suoi abitanti. E le sue acque, gli scellerati abitanti, han
rese amare e ree, dacché dolci e buone che erano.
Ma invero, nessuna di queste
storie davvero convinceva il Grande Cane, che chiuso nel palagio sforzesco,
nulla sapeva e nulla vedeva della città appena conquistata, i cui abitanti
sembravano svaporati, dacché se ne stavano tutti tacass dentro cà e non
volevano saperne di uscire a timore dell’Orda che s’era presa la città e di
pistolenza ne faceva strage assai.
E dirovvi allora che il Grande
Cane, si portava sempre appresso un giovin originario di Vinegia. Costui - che
avea nome Marcho ed era il figliuolo di Messer Niccolò Polo – da lungo tempo lo
serviva, recando ambasciate in grandi città piene di maraviglie e apparando
bene ogni cosa, per saper dipoi ridire al suo Gran Sire.
E mentre el Can Grande diramava
i suoi messaggeri nelle strade della Città della Scrofa e della Terra
Longobarda per la rendicontazione delle anime vive e di quelle morte e per
avere contezza delle terre nuove conquistate con così poca fatica dopo un sì
lungo viaggio e nuova grande pistolenza;
conterovvi allora come ordinò anche a Messer Marco, di andare per le
mastre vie della citade ad ascoltare, interrogare e riferire.
Marcho, percioch’è era un
giovinone di bello aspetto e intelligente assai, prese a interrogare le
pulzelle della città, inverochè erano anche le sole che aprivano le porte al
suo bussare gentile, ai suoi begli occhi scuri e a quella sua parlata dolze di
Vinegia. Ma il messaggio che ogni sera fedelmente riferiva al suo Sire, si
rivelava solo a una minuscola tessera incomprensibile della vera anima della
citade, la cui immagine – nella mente del Khan – assumeva contorni sempre più
imprecisi ed evanescenti, che sfumavano nella scighera che l’avvolgeva sempre
più fitta, malgrado l’incipiente estate che misteriosamente squagliava le forze
della sua Orda coronata.
La bella Diomira del Giambellino,
difatti, si limitò a dire che, solo chi vi arriva in una certa sera di
settembre, quando le giornate principiano ad accorciarsi, avrà la fortuna di
sentire da una terrazza la voce di una donna che grida: “Uh, cavalcatemi bel
cavaliere, cavalcatemi! E se ‘l Gran Can sentisse tal richiamo, gli verrebbe
sicuramente da invidiare quelli che pensano d’aver già vissuto una sera uguale
a questa e d’esser stati, quella volta, felici”.
Eppure il Grande Cane è arrivato
solo a febbraio, o forse prima, a dicembre. Gli esperti sapienti, dicono. Ma
non si sa, aggiungono subito dopo. Però a settembre pare proprio di no. Dicono.
E allora serve che Messer Marco riparta e vada, ad esempio, da Isidora. Ma
Isidora è solo una zitella centenaria acquartierata nei pressi della Bicocca e
per lei la città del Drago è una città solamente sognata a cui i pellegrini vi giungon
solo in tarda età: “Quando i desideri son già ricordi”, sospira la vecchia.
Orbene, ‘l Gran Can, forse, è anche tardo d’età, ma non ne è così sicuro e poi
alla città gli pare di essere già arrivato e di non averla sognata. Così - a
gran pedate - manda ‘l Milione fuori dal palagio ad indagare ancora.
Dovete, dunque sapere, che nel
centro della città, accosto a una chiesa rivestita d’ossa e teschi, sta la Ca’
Granda, dove il veneziano ha preso a recarsi per via di una certa Zaira,
allieva del venerato filosofo Paci. Nella penombra di un cortiletto detto dei
Uomeni Gentili, a Zaira il bel giovinone, riesce a carpire nozioni più precise:
“La città tutta è fatta solo di relazioni”, sentenzia la puella raziocinante,
“Relazioni incessanti tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo
passato di cui la città s’imbeve e si dilata”.
“Di relazioni incessanti la
città s’imbeve”, riferisce - invero un po’ impreciso - al Kublai.
Dorotea, invece, che ha
conosciuto la sete, il deserto e le piste delle carovane che misteriosamente
svaniscono al Terminal di Lampugnano, gli vaticina: “Ah! Ah! Qui che non c’è
bene della vita che non potesse aspettarmi”.
- “Ma che vaticinio è mai
questo?”, dimanda ‘l Gran Can sospettoso.
Per chiarire allora l’enigma –
giacché Dorotea pare svanita insieme alle carovane del terminal lampugnanese – Marco bussa
alla porta della di lei sorella, Anastasia che così giura:
- “Sappiate di vero sanza
mentire, che la città è ingannatrice e bagnata da canali concentrici. Di essa
non si è altro che schiavi, anche se si è dei Grran Cani e servi dei Grran Cani.
Come voi, Messer Marco”.
E ‘l Gran Cane allora vorrebbe rimirare
quei mirabili canali concentrici, che dicono opera di genio grando assai (anzi
assaiuni). Ma Marco, inzenochio al Sovrano in segno di umiltade, risponde
tosto:
- “Oh Gran Sire, i canali sono
stati seppelliti tutti da quegli sciagurati dei suoi cittadini, ora ne
rimangono scoperte solo due miserrime semirette acquee che tagliano
all’infinito campagne inquinate”.
E così riprincipia col suo vagabondare.
- “Uff” – risponde Tamara,
occhialuta impiegata del catasto di via Manin – “riferisci pure al Sire tuo di
non angustiarsi, la città dice già tutto quello che deve pensare. Basta
ascoltarla e censire i modi con la quale essa si traveste di volta in volta,
per sottrarsi”.
- “No, no, e ancora no” –
assicura Zora di viale Zara [NdT: o forse sta scritto Zara di viale
Zora?] – “La città della Scrofa, non c’è già più. Ma come non lo
sai? Languì!, si disfece!, scomparve! La
terra! l’ha dimenticata! Oramai!”.
- “Grande Cane”, s’infervora il
Marcho con grande alegreza zonto di ritorno al palagio, “di sicuro la città non
è qui, è altrove. Partemo! 'ndemo! 'ndemo via!”.
- “Altrove!, altrove? Ma dov’è
questo Altrove? E dov'è 'sto 'ndemo?”. Chiede indispettito il Sovrano e, cosi, Marco riprincipia con
le sue ambasciate per strade meneghine.
- “Sì, certo!” - conferma
Despina (grande affabulatrice), lasciando entrare il giovinone nella sua camera
con vista sul Bosco Verticale (recente vanto e orgoglio cittadino) – “Questa
città non è e quand’è è sempre e solo altrove. Per questo vi
si può giungere solo per nave o per cammello, come ben t’ha detto Dorotea. Ma io
posso aggiunger per vero sanza menzogna, che si sa di esservi giunti quando
finalmente si vedon spuntare - all’orizzonte della pianura del Tarantasio - i
pinnacoli dei suoi grattacieli. Li ha visti il tuo Signore i pinnacoli?”.
Chiede maliziosa Despina, osservando il pinnacolo del Messer Marco che con
prontezza meneghina s’innalza di sotto le vesti.
Per Zirma, invece, è quella
buttanazza di Despina a trovarsi sempre altrove. Sui pinnacoli altrui. Per la
precisione. E raccomanda a Marco di rassicurare quel Grande Canazzo del suo
Signore, che lui e la sua Orda si trovano proprio hic et nunc: “Ma – poareto
che ‘l xe- non può rammentarlo, perché la città del Bissùn grando (più del Can)
è vana e ridondante e deve ripetersi e ripetersi e ancora ripetersi, affinché
qualcosa di lei arrivi a fissarsi nella mente di chi la domina, facendone
strazio grande”.
Isaura –
che ha studiato l’ingegneria idraulica della città vana direttamente dal genio
vinciano che qui vi soggiornò al servizio del Moro – dall’alto pulpito delle
aule del Politecnico gli chiarisce: “La città ha ben conservato le sue mille
vie d’acqua sotterranee. Solo che ora vengono aspirate da tubi verticali che
salgono su, su. Invero, questa città si muove; si muove sì, ma sempre e tutta
verso l’alto. Ma mai più in alto della sua Signora Nascente”.
“Di questi corsi
d’acqua incanalati nelle tubature della città che sale, son rimaste padrone le
Ninfe e le Naiadi” – aggiunse Armilla, mentre si dedicava sollecita
all’insaponatura della schiena delicata del giovinotto, nella Fontana dei Bagni Misteriosi.
Le
milleunanotte, Maurilia, Fedora e Zoe, belle, giocose e molto allegre di
quell’usanza – dopo un giorno e una notte di blandizie e lussurie – acconsentirono
solo a rivelare ad un esausto Messer Marco, questo triplice messaggio:
“Attraverso ciò che la città è diventata, si può pensare con nostalgia a quello
che era”. “Certo, ora è solo una metropoli di pietra grigia”, ma è anche, e pur
sempre, “il luogo dell’esistenza dell’invisibile” [NdT: grafia incerta
della Zerlina, forse la sciura ha scritto "invivibile"].
Ma di
tale sbordellato messaggio il Gran Sire non comprese nulla e di nuovo rimise
Marco (invero un po’ recalcitrante) fuori dalla porta del gran palagio.
Zenobia,
cagna felice incrociata nella notte tra i fuochi dei copertoni accesi, se la
ride: “Ah! Se il tuo Gran Sire, della diritta ischiatta di Cynghi Cane,
chiedesse ad uno qualunque degli abitanti della città dove egli immaginerebbe
una vita felice, ti risponderà che solo in questa città, nella Città della
Scrofa e del Drago, è possibile”.
- “Sì ma
dove sono gli abitanti della città?” - interroga ‘l Gran Visire – “Fuori niuno
se ne truova. Sempre tacass a cà, ‘sti malnass”.
Fortunatamente
il bel giovine trova ricetto nel monolocale ammobiliato in piazza Duse della
bella Eufemia, che tra vapori d’assenzio, così lo irride: “Oh Gran Bigolo,
questa è una città in cui si ci scambia la memoria a ogni solstizio e ad ogni
equinozio, tra poco anche il Grande Cane si aggirerà senza memoria tra le sue
contrade e dipoi sparirà dacché questo è il destino che per lui han tessuto le
nere Moire”.
Zobeide,
invece, seduta sul sagrato di San Satiro intenta a sferruzzare come una delle
parche appena evocate da Eufemia, si dichiara d’accordo con Anastasia: “Ma come
non vedi? Questa è una città bianca, con vie che girano su sé stesse come
gomitoli. ‘l Gran cane e la sua orda sono solo due gatti nella sua cesta”.
Mentre Ipazia,
profetessa ostracizzata, gli sibila alle spalle: “Or s-s-s-sappiate veramente,
che verrà il giorno in cui il s-s-s-solo desiderio s-s-s-sarà dipartire”. Ma
dipoi non acconsentì a rivelare di chi fosse il desiderio della dipartenza: del
Grande Cane o dei meneghini richiusi nelle loro mura misteriose e ostili?
Per
chiarire l’arcano, con Ipazia presa d’astratti furori [NdT: o –
forse – sta scritto eroici furori? la calligrafia della sciura qui è poco
chiara] per così granda ignoranza, il giovin Marcho interrogò Cloe,
l’appartata di via Mecenate.
- “Ah,
ahi, lamentò”, la vogliosa quarentona, “qui le persone passano e non si
conoscono”. Passano e non si conoscono – trascrisse di fretta il messere ad uso
del suo Sire a margine di pizzino dove si era già appuntato, la disputa tra
Sofronia - questa città “si compone di due mezze città” – e Valdrata: “nulla di
ciò che qui esiste e avviene è simmetrico”. Ma poi Eutropia, frugandogli nelle
tasche alla ricerca di danari che il giovinotto inspiegabilmente (visti gli
ottimi servigi) e ostinatamente le negava, in un accesso di gelosia ne fece
coriandoli del pizzino e così l’apostrofò:
- “Sciocco,
la città del Drago non è una, ma tutte queste città insieme”.
- “Ed è
perciò che continuiamo a girare per le sue vie con gli occhi che scavano”, aggiunse
Zemrude, osservando le portentose gioie del giovinone con maravigia granda.
Aglaura
lo avvertì: “Oh, oh, nulla è vero di quanto si dice di questa zità”. Pedante e
maestrina la paziente Ottavia gli resospirò nella recchia: “Ora ti dirò, filo
per filo, com’è fatta la città-ragnatela …”, ma Messer Marco in quel suo sciàto
caldo smarrì subito il filo e non lo ritrovò più.
Lo rassicurò allora Leandra: “Non
ti curare dei fili, perché la vera essenza della città è argomento di
discussione senza fine”. “Sì” – aggiunse Melania – “ogni volta che si entra
nella piazza ci si trova in mezzo a un dialogo. Non l’ha ancora sentito il tuo
Signore questo parlare fitto?”.
- “Uè
cuntaball!” – esclamò il Sovrano, segnior di tutte le pistolenze, che aveva
principiato a imparare la lengua meneghina – “Ma che dialogo?, Che piazza?, E
questa Melania, di che ciancia?”.
Suggerì
allora Smeraldina della Conca: “Invita il tuo Gran Sire a passeggiare per la
città e così si accorgerà che la linea più breve del suo percorso non sarà mai
una retta, ma uno zig zag ramificato in tortuose varianti”.
Il Gran
Cane allora uscì per la città silenziosa e deserta e s’imbatté in Fillide che –
riprendendo l’ambasciata di Zora [NdT:
o era Zara?] – riprincipiò con le
storie dell’invisibilità: “Se pur in ogni suo punto la città offre sorprese
alla vista, poi stinge fino a diventare invisibile ai suoi visitatori”.
- “Allora”
– disse il Gran Khan – che finalmente gli pareva d’aver capito – “è una città
che si sottrae allo sguardo”.
- “Si
sottrae allo sguardo tranne quando la cogli di sorpresa”, risponde Fillide
alzando lesta la sottana ed iniziando a pettinarsi lasciva.
- “Ahi,
Ahi”, – lamentò a lungo l’infelice Pirra dell’Idroscalo, mentre Marco
armeggiava con la cera per le orecchie per non sentire più i suoi lamenti – “sappiate
che il mare non è in vista della città. Ma tutta la città – maceriata e persa -
lo sogna. Sempre”.
“Gran
Sire” – disse Adelma, damazza nero velata di stanza nel Famedio - “La ragione è di Isidora: la città non la si
può mirare che in sonno e non s’incontrano che morti. E’ una città che fa paura
anche ai cani grandi, come Voscienza”.
La Eudossia del Casoretto, se li prese entrambi sotto braccio e portandoli a passeggio per il lungo corso
Buenos Aires, con lingua svelta li avvertì: “Or sappiate, per veritade, che qui
perdersi è facile. Ritrovarsi impossibile”.
- “E’
impossibile”, – fece eco Moriana – “soprattutto nel suo rovescio. Seguitemi, dunque,
Sire del Fa Gran Dagn. Basta percorrerne il semicerchio e della citade si avrà
vista la sua faccia nascosta: una distesa di lamiera arrugginita, assi irte di
chiodi e di vetri, tubi neri di fuliggine, barlafuss e scovazze a mucchi, muri
ciechi, tinte stinte”.
Il
Grande Cane rientrò al palagio sforzesco perplesso, la Città del Drago iniziava
a venirgli a noia, e i numeri della sua ricca messe si confondevano e facevano
ogni giorno più incerti: quanti i sommersi? quanti i salvati? Quanti ancora i
resistenti? E poi c’era sempre quel venexiano con ambasciate sempre più enigmatiche. Come quella che gli
pervenne tramite un telegramma inviato da un remoto ufficio postale di Quarto
Oggiaro, ov’era scritto: Sanza inganno! - La citade è citade - gloriosa et
storia - travagliata - Più volte - decadde - rifiorì - Ai tempi dell’indigenza
succedono - epoche - giulive - Repentinamente si spengono - Lasciano secoli di degradazione -
L’ennesima pistolenza - la desertifica - Crolleranno i suoi superbi - palazzi -
Si abbasserà di statura - Arrugginita et intasata di topi et - muffa, - rivelerà
il suo cuore - di estranea, - incongrua, usurpatrice. Firmato: Marcho &
Clarice (amanti per sempre).
Ma cu è
‘sta Clarice? Chiese ‘l Can Grando spazientito, che oltre alla lengua
tartarescha e meneghina stava apprendendo anche l’idioma della remota Isola di Siçillja
per voler essere anche lui degno dell’appellativo Stupor Mundi.
- “Ma
parbleu!”, esclamò il giovin Marc-Pol, “Clarice è la magnifica impiegata delle Poste
di Quarto Oggiaro, che el xe trova nella corte sconta detta anca de Jiuri Gagarin”
[NdT: è certamente un errore di trascrizione della Zerlina, poiché non
esiste niuna corte cittadina con questo nome, neppure tra quelle escondide e, a
riprova: l’ufficio postale di Quarto Oggiaro si trova vicino a piazza Capuana!].
- “Ma sta su de doss con ‘sta solfa de
vittimismo”, se la ride Eusapia, solleticando il vello d’oro a giovin veneziano,
“in realtà non c’è città più
propensa di questa Scrofa semilanuta a goder della vita e a sfuggir gli affanni”.
“A
sfuggir gli affanni”, assentì Marco con un aperitivo di Campari e giazz in mano,
mentre se ne sta affacciato a prendere il fresco sul Naviglio Grande.
Ma Bersaba
– mistica che si nutriva solo d’acqua benedetta – spense tosto ogni gioia
terrena e, da dietro le grate del convento delle Orsole, rivelò: “Sospesa nel
cielo esiste un’altra città del Drago dove si librano le virtù e i sentimenti
più elevati della città, perché non consigli al tuo Gran Sire sovrano
d’ascendere per rimirarne le beltade? Che ascenda!, che levi le tende!, che se
ne vada! A ramengo anca ‘l Gran Canass!”.
Mentre,
Leonia – intenta a rifarsi il pesante trucco sciupato tra mille notti
d’arcamalecca in viale Troja, si limitò a commentare: “La città è come me, rifà sé stessa tutti i giorni. E rammemora
al tuo Can che più espelle roba, più ne accumula e le squame del suo passato si
saldano in una corazza che non potrà più togliere”.
Anche
per Irene, la città erano due: Una è la città per chi vi passa senza entrarci e
l’altra è la città per chi ne è preso e non è esce. Una è la città a cui si
arriva la prima volta, l’altra la città che si lascia per non tornare.
- “Vuole
forse lasciarla il tuo Gran Chaan?”, dimanda Irene tra fremiti di desio et speranza.
Tecla,
indovina cieca di Baggio, vaticinò: - “Della città si vede ben poco, perché è
sempre in costruzione ed è sempre in costruzione affinché non cominci la
distruzione”. Mentre, Trude, esasperata dal continuo dimandare del veneziano,
gli boiò dietro: - “Dì al tuo Sovrano che, se arrivato, non avesse subito letto
il nome della città, avrebbe creduto d’essere approdato alla stessa città da
cui era salpato”.
Ma il
Gran Cane non ricordava più la città di dove era dipartito e nemmeno sapeva più
donde ritornare e così continuava a ruzzolare con la sua Orda inferocita per la
città della semilanuta facendone strage assai. Dicono. Ma i numeri, come le
parole, nella Città del Drago si confondono e i conti non sono mai esatti.
Olinda, scorta
intenta a strusciarsi su un albero del Parco Nord, tra un mugolio e l’altro, enunciò:
“La città cresce solo a cerchi concentrici, come i tronchi di tutti gli alberi
che ha tagliato”. E Laudomia, dal cuore largo e figa stretta, convenne che la
città più la vivi e più s’affolla e si dilata. “E in effetti” – concluse
Procopia – “… non si ha idea in uno
spazio ristretto quanta gente ci può stare”.
Secondo
Raissa della calle della Moscova, la vita qui non è felice. Conta, difatti,
Raissa, che per strada la gente cammina torcendosi le mani e impreca ai bambini
che giocano. E alla mattina si sveglia da un brutto sogno e ne principia subito
un altro: - “La città della Scrofa è una città che contiene una città felice,
che nemmeno sa d’esistere”, sussurra spaurita la moscovita.
- “Nonostante
una regolamentazione minuziosa, con numero assai di grida fresche che fanno
spavento, ordinanze longobarde e DPCM nazionali”, - a parere di Andria,
cancelliera del Palazzo di Giustizia e ultimo epigono della famiglia lecchese
degli Zaccagarbùj – “la vita della Città Frenetica scorre placida”. “Ma non dimenticatevi
che questa è pur sempre una città diffusa”, – chiosa Cecilia dalle aule del
Conservatorio – “qui, difatti, i luoghi si mescolano e la città come la musica
si diffonde dappertutto”.
- “Il
Gran Cane si sbaglia, tutti si sbagliano questa non è la città del Drago o
della Scrofa, ma del topo e della rondine. Adesso tutti si nascondono in
cunicoli di piombo, ma lo sento”, sussulta Marozia consultando i tarocchi su un
tavolino in mezzo alla via Brera, “sta
per cominciare una Nuova Etade in cui tutti voleranno come le rondini nel cielo
d’estate”.
Da
Pentesilea, stimata cartografa dell’illustre Istituto Geografico, Messer Marco consegnò
al suo perplesso Sovrano, una mappa invisibile su cui stava scritto: “Ne sei
fuori. Fino a quando non l’hai raggiunta; dipoi passi sotto un archivolto e ti
ritrovi dentro, la città. Vedrai! Il suo spessore compatto ti circonderà e,
intagliato nella pietra, c’è un disegno, che ti si rivelerà se ne segui il
tracciato tutto spigoli”.
- “Pfffff”
– concluse placida Teodora assisa all’ombra della colonna del Diavolo – “invasioni
ricorrenti travagliarono nei secoli la storia di codesta citade, ad ogni nemico
sgominato, un altro ne prendeva subito forza per minacciarne la sopravvivenza
dei suoi abitanti. ‘l Gran Canazzo non fa eccezione”.
“Verrà
infine sgominato, ma”, – aggiunse per ultima Berenice con un saluto di commiato
– “il Gran Signore delle metamorfosi tornerà ancora ad assediare la Città
ingiusta, che mentre olia incessantemente gli ingranaggi dei suoi macchinari
tritacarne, proietta già l’ombra delle sue future successioni nel tempo.
Riferisce
nella sua ultima ambasciata il giovin Marcho al Gran Sire che, indebolito dalla
pervicace assenza di abitanti, va perdendo forza: “Alla città attuale, si susseguiranno
altre città, tutte diverse, tutte giuste e tutte ingiuste. Tutte ugualmente
inestricabili, indecifrabili, inesorabili”.
“E tempo
che sia tempo, è tempo, ancora una volta, di dipartire”, assente il Sovrano.