Telegono
– #1 (clean version)
Mia madre è una maga luminosa e immortale.
Mio padre un astuto marinaio che conosce ogni sorta di inganni e di acuti
pensieri.
Io sono Telegono, sono colui che viene da
lontano. Vengo ex halos, come predisse Tiresia. Vengo per uccidere mio padre.
Ho una lancia, la sua punta è la spina letale di un pesce di Sardegna, gliela pianterò dritta nel cuore e nulla potranno le
astuzie per le quali è noto al mondo.
Per arrivare qui, alle sponde dell’isola ricca
di rocce, mi è bastato seguire la lunga scia di sangue che ha lasciato dietro di sé,
colui che vi ha fatto ritorno, dopo aver ridotto Ilio in un cumulo di cenere e
tizzi, sdillabbrandola tutta.
Un lungo fiume rosso, fumigante d'odio e
di dolore che invoca una Dike per i morti, per gli orbati ed i beffati.
Mi accompagna un uccellaccio, a volte, tra
i bagliori del sole, sembra assumere sembianze di giovinetta, altre volte, si
lancia a capofitto nel mare e allora pare un pesce, la sua schiena riluce
argentata e si intravede sul fondo una coda biforcuta che batte lenta.
Certe notti, quando più forte soffia il
vento, mi parla con voce arrochita, ma che pur risuona di innumerevoli armonici:
- gran bìndolo ascolta io son dolce serena che’ marinai in mezzo mar dismago e
i naviganti dalla loro rotta allontano, come già feci con Olissi, il gran ladro
della Dea fenicia.
Dice: - sono Lighea, la melodiosa, son
figlia di Calliope. Dice, anche, d’essere immortale e di poter spacciare molte
favole simili al vero, ma di saper, se vuole, il vero cantare, ma poi dice ancora
che la verità si trova ben più in fondo, nel cieco, muto palazzo di acque
informi, senza bagliori e senza sussurri. Dice che non è vero che, con le sue
sorelle, si uccise per mio padre, per una sordida storia di cera e catene. Dice
che quella notte nessuna di loro cantò quando, spinta da vento propizio, una
nave stranissima, governata da grandissimi remi (mai vista accà - sostiene)
arrivò alla loro isola e, mentre un Dio assopiva le onde, le tre sorelle canore
la guardarono passare in silenzio: erano già tutti destinati.
E dice che inutile fu quindi l'aiuto di
mia madre, la maga dell'isola Eea. Dice che quella gran magara di mia madre,
dea tremenda con voce umana, si fa chiamare ora Ciccina Circè e traffica nello
scill’e cariddi, trasbordando di notte sperduti naviganti, al di lá dello
stretto, dove transitano navi da guerra e fere che solo lei sa ammansire al
dindin di una campanella. Dice che ora mia madre fa la contrabbandiera e,
all'occasione, l’etéra per soldati Yankees e che mio padre, mai sazio d’inganni
e di fatiche, sta ancora firriando maremare verso le colonne del Tirinzio.
Non l’ascolto. È un uccellaccio del
malaugurio e metto cera nelle mie orecchie. Lei ride, e da grande arcalamecca,
millunanotte loquente che è, dice che è un vecchio, inutile, trucco. Non t’abbiliare,
non si fugge al destino. Outìs, il
senza nome, acquistando
dal lato mancino, s’è
fatto lontano, l’orazion picciola è già stata detta ed i remi si son fatti ali
al folle volo.
Epilogo
Quando con l’uccellaccio, dopo aver corso
maremare, come una conchiglia tutta
corrosa dall’acqua ci svegliammo a Itaca sotto le lunghe lance del sole, il mar
- com’altrui piacque – già s’era sovra lui richiuso.
***
Mia madre è una maga luminosa e immortale[1]. Mio padre un astuto
marinaio che “conosce ogni sorta di inganni
e di acuti pensieri”[2].
Io sono Telegono, sono colui che viene da
lontano[3]. Vengo ex halos[4], come predisse Tiresia. Vengo
per uccidere mio padre. Ho una lancia, la sua punta è la “spina letale di un pesce di Sardegna”[5], gliela pianterò dritta nel cuore e a nulla
varranno le astuzie per le quali è noto al mondo.
Per arrivare qui, alle sponde dell’isola ricca di rocce[6], mi è bastato seguire la
lunga scia di sangue che ha lasciato dietro di sé, colui che vi ha fatto
ritorno, dopo aver ridotto Ilio in un cumulo di cenere e tizzi[7], sdillabbrandola tutta[8].
Un lungo fiume rosso, fumigante d'odio e
di dolore che invoca una Dike per i morti, per gli orbati[9] ed i beffati.
Mi accompagna un uccellaccio, a volte, tra
i bagliori del sole, pare assumere sembianze di giovinetta, altre volte, si
lancia a capofitto nel mare e allora pare un pesce, la sua schiena riluce
argentata e si intravede sul fondo una coda biforcuta che batte lenta [10].
Certe notti, quando più forte soffia il
vento, mi parla con voce arrochita ma che pur risuona di innumerevoli armonici[11]:
- gran bìndolo[12] ascolta io son dolce serena che’ marinai in mezzo mar dismago[13] e i naviganti dalla loro
rotta allontano, come già feci con Olissi[14], il gran ladro della Dea
fenicia[15].
Dice: - sono Lighea, la melodiosa[16], son figlia di Calliope[17]. Dice anche d’essere
immortale e di poter spacciare molte favole simili al vero, ma di saper anche, se
vuole, il vero cantare[18], ma poi dice ancora che la
verità si trova ben più in fondo, nel
cieco, muto palazzo di acque informi, senza bagliori e senza sussurri[19]. Dice che non è vero che,
con le sue sorelle, si uccise per mio padre, per una sordida storia di cera e
catene. Dice che quella notte nessuna di loro cantò quando, spinta da vento propizio, una nave stranissima, governata da grandissimi
remi (mai vista accà - sostiene)
arrivò alla loro isola e, mentre un Dio
assopiva le onde[20], le tre sorelle canore la
guardarono passare in silenzio[21]: erano già tutti
destinati.
E dice che inutile fu quindi l'aiuto di
mia madre, la maga dell'isola Eea. Dice che quella gran magara di mia madre,
dea tremenda con voce umana[22], si fa chiamare ora Ciccina
Circè e traffica nello scill’e cariddi, trasbordando di notte sperduti naviganti,
al di lá dello stretto, dove transitano navi da guerra e fere che solo lei sa
ammansire al dindin di una campanella. Dice che ora mia madre fa la
contrabbandiera e, all'occasione, l’etéra dei soldati Yankees[23] e che mio padre, mai
sazio d’inganni e di fatiche[24], sta ancora firriando
maremare verso le colonne del Tirinzio[25].
Non l’ascolto. È un uccellaccio del
malaugurio e metto cera nelle mie orecchie. Lei ride, e da grande arcalamecca, millunanotte
loquente che è, dice che è un vecchio, inutile, trucco. Non t’abbiliare,
non si fugge al destino. Outìs, il
senza nome, acquistando
dal lato mancino, s’è
fatto lontano, l’orazion picciola è
già stata detta, ed i remi si son fatti ali
al folle volo[26].
Epilogo
Quando dopo aver corso maremare, come una conchiglia tutta corrosa
dall’acqua[27],
con l’uccellaccio, ci svegliammo a Itaca
sotto le lunghe lance del sole[28], il mar - com’altrui piacque – già s’era sovra lui richiuso[29].
[1] K.
Kerényi, Figlie del sole,
Bollati Boringhieri, Milano, 2008, p. 68: «Intorno
a questa grande dea la magia era ancora una forza direttamente divina, non era
né fattura, né malia».
[2] Omero,
Iliade, III, 191-224, Einaudi,
Torino, 1993, trad. R. Calzecchi Onesti:
«Quello è il figlio di Laerte, Odisseo
abilissimo che crebbe fra il popolo di Itaca, la ricca di rocce, e conosce ogni
sorta di inganni e di acuti pensieri». Nella traduzione di V. Monti, Mondadori, Milano, 1995: «quegli è l’astuto laerziade Ulisse (…) uomo che ripieno di molti ingegni ha il capo
e di consigli». Secondo Privitera, la traduzione di metis e doloi in astuzia e inganni, «altera il
significato dei due termini, che in italiano è piuttosto negativo, mentre in
greco è positivo. La metis non è
l’astuzia fraudolenta, ma l’intelligenza pratica. I doloi sono i pensieri coerenti e intessuti
saldamente: sono gli avveduti accorgimenti tramati e orditi dalla mente per
vincere e convincere» (G.A. Privitera,
Il ritorno del guerriero, Einaudi,
Torino, 2005, p. 75).
[3] Igino, Miti, Adelphi, Milano, 2000, a cura di G. Guidorizzi, 127, p. 90: «Circe mandò Telegono, il figlio che aveva
avuto da Ulisse, alla ricerca del padre. Il giovane venne sbattuto da una
tempesta sull’isola di Itaca; là spinto dalla fame si diede a saccheggiare i
campi, per cui Ulisse e Telemaco, senza sapere chi fosse, lo affrontarono con
le armi in pugno. Così Ulisse fu ucciso dal figlio Telemaco, conformemente al
responso di un oracolo, il quale gli aveva predetto che avrebbe dovuto temere
la morte per mano di suo figlio». Similmente Apollodoro, Epitome, 36, Adelphi, Milano, 1995, commento di J.G. Frazer, a cura di G. Guidorizzi: «Poi Telegono, che aveva appreso da Circe di essere figlio d’Odisseo, si
mise in mare per cercarlo. Giunto ad Itaca razziò alcuni capi di bestiame;
quando Odisseo accorse, Telegono lo ferì con l’asta che imbracciava e che aveva
come punta la spina di una tracina e Odisseo morì».
[4] Omero,
Odissea, XI, 135: nella traduzione di
R. Calzecchi Onesti, Mondadori,
Milano, 1968: «Morte dal mare ti verrà,
molto dolce, a ucciderti vinto da una serena vecchiezza»; nella traduzione
di G.A. Privitera, Fondazione
Valla, 2007: «Per te la morte verrà fuori
dal mare, così serenamente da coglierti consunto da splendente vecchiezza».
Scrive Boitani, sulla profezia di Tiresia, «l’espressione è ex halos, che può significare da dentro il
mare (un mostro, un naufragio, o qualcuno venuto dal mare come Telegono),
oppure può voler dire lontano dal mare» (P. Boitani, Il grande racconto di Ulisse, Mulino, Bologna, 2015, p. 49).
[5] Licofrone
– Alessandra, 648 – 819, in G. Guidorizzi, Il mito greco, II, Meridiani Mondadori, Milano, 2012, p. 1239, «nell’Alessandra di Licofrone, Cassandra profetessa
ispirata e delirante, parla oscuramente e per enigmi delle vicende di Odisseo,
a cui dedica un lungo passo» (p. 1522). Gli autori antichi
concordano che Telegono colpì Ulisse con la «punta avvelenata di una lancia, formata dalla spina del pesce (…) che
corrisponde probabilmente a una tracina; l’arma era stata donata a Telegono da
Efesto (…). L’uso di un’arma avvelenata – oggetto estraneo al mondo eroico: usa
armi avvelenate il solo arcaico Eracle – è un elemento selvaggio che si
ricollega alla natura marginale di Telegono, uomo proveniente da una barbarica
terra occidentale» (G. Guidorizzi, nel commento a Igino, Miti, cit., nota 637, p. 394).
[6] Omero, Iliade, III, 191 – 224, cit.
[7] P. Boitani, Il grande racconto di Ulisse, cit.,
p. 105.
[8] M. Rando, Omero al Faro, Rubettino, 2016, p. 1: «A
mezzogiorno sotto il sole cocente, all’ombra di una feluca, Scillecariddi si
torceva in rovello, e quella granTroiazza, prendendola da sotto, da sopra, e ai
fianchi, i prodi Achei da tutti i lati la sdillabbravano».
[9] Omero, Odissea, IX, 515: «uno che è
piccolo, da nulla e debole, ora mia ha orbato dell’occhio, dopo avermi vinto
col vino» (nella traduzione di G.A.
Privitera per Fondazione Valla, 2007, vol. III).
[10] G. Tomasi di Lampedusa, Lighea, in I racconti italiani del novecento, a cura di Enzo Siciliano,
Meridiani Mondadori, p. 892.
[11] G. Tomasi di Lampedusa, Lighea, cit., p. 892.
[12] Esiodo, Teogonia, 1 – 113, nella traduzione di E. Romagnoli, Raffaelli Editore, 2016: «Pastori avvezzi ai campi,
gran bìndoli, pance e null’altro».
Il
Vocabolario Treccani, propone come significati di bìndolo, in senso figurativo «raggiro» e «uomo abile nei raggiri, ingannatore,
imbroglione».
[13] Dante, Divina Commedia - Purgatorio,
XIX: «“Io
son", cantava, / "io son dolce serena, /che ’ marinari in mezzo mar
dismago; tanto son di piacere a sentir piena!».
[14] Dante, Divina Commedia - Purgatorio,
XIX: «Io volsi
Ulisse del suo cammin vago / al canto
mio; e qual meco s’ausa, / rado sen parte; sì tutto l’appago!»; M.
Rando, Omero al Faro, cit.,
[15] Licofrone, Alessandra, 648 – 819, cit.:
«Odisseo rubò la statua di Atena, il
Palladio», la «dea era venerata con l’epiteto di Fenicia a
Corinto» (p. 1522).
[16] F. Cristiano, Terina e il mito della sirena Lighea, in https://www.panorama-numismatico.com/wp-content/uploads/09-15-terina-.pdf: «Sappiamo, infine, che non esisteva un limite
troppo netto tra Muse, Sirene e Ninfe-Menadi; che le Sirene, come le Ninfe,
erano ritenute figlie dell’Acheloo e si attribuiva loro per madre la musa
Melpomene. Se a ciò si aggiunge che le Muse sono considerate figlie di Urano e
Gea da Mimnermo e presentate come figlie di Mnemosyne nella Teogonia esiodea,
non è difficile individuare una loro stretta relazione con le sorgenti, i culti
ctoni e l’oltretomba».
[17] G. Tomasi di Lampedusa, Lighea, cit., p. 893: «Sono Lighea,
son figlia di Calliope. Non credere alle favole inventate su di noi: non
uccidiamo nessuno, amiamo soltanto».
[18] Esiodo, Teogonia, 1 -113, nella traduzione di Guidorizzi: «noi sappiamo inventare molti racconti simili
al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero raccontare» (G. Guidorizzi, Il mito greco, II, Meridiani Mondadori, 2012, p. 340).
La Lighea del racconto di Lampedusa
è figlia della Musa Calliope, la «più
illustre di tutte» le Muse, secondo Esiodo (Esiodo,
Teogonia, 1 – 113, cit.).
Le Sirene (due per Omero e tre per
la tradizione successiva: Partenope,
viso di vergine, Leukosia, la bianca,
e Lighea, la melodiosa o la canora)
sono figlie del fiume «Acheloo o di
Forci, il Vecchio delle profondità marine», e la loro «insidiosa abilità di
cantatrici deriva alla musa loro madre Tersicore o Melpomene o Calliope» (G. Guidorizzi, Il mito greco, I, cit., p.
1480). Osserva Guidorizzi come le Muse siano all’opposto delle Sirene: «anche queste invisibili sono voci che
ammaliano, però le Muse assicurano l’immortalità del ricordo, mentre le Sirene
promettono l’oblio» (G. Guidorizzi,
Il mito greco, I, cit., p. 338).
[19] G. Tomasi di Lampedusa, Lighea, cit., p. 896.
[20] Omero,
Odissea, XXII 143 – 200, nella
traduzione di G.A. Privitera,
Fondazione Valla, cit.: «Intanto la solida nave rapidamente arrivò
all’isola delle Sirene: la spingeva un vento propizio. Subito dopo il vento
cessò. Successe la calma, senza bava di vento. Un dio assopiva le onde».
[21] F. Kafka, Il silenzio delle sirene: «Per
difendersi dalle Sirene, Odisseo si tappò le orecchie con la cera e si lasciò
incatenare all’albero maestro. Naturalmente tutti i viaggiatori avrebbero
potuto fare da sempre qualcosa di simile, eccetto quelli che le Sirene avevano
già sedotto da lontano, ma era risaputo in tutto il mondo che era impossibile
che questo potesse servire. Il canto delle Sirene penetrava dappertutto e la
passione dei sedotti avrebbe spezzato ben più che catene e albero. Odisseo non
ci pensò, benché forse lo sapesse. Confidava pienamente in quel poco di cera e
in quel fascio di catene, e, con innocente gioia per i suoi mezzucci, andò
direttamente incontro alle Sirene. Ora, le Sirene hanno un’arma ancora più
terribile del canto, cioè il silenzio». F. KafkaQuaderni in
ottavoI.A. Chiusano
Secondo Horkheimer – Adorno: «Odisseo riconosce la strapotenza arcaica del
canto. Egli si china al canto del piacere, lo sventa, così, come la morte.
L’ascoltatore legato è attirato dalle Sirene come nessun altro. Solo ha
disposto le cose in modo che, pur caduto, non cada in loro potere» (M. Horkheimer – T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi,
Torino, 1997, p. 66).
[22] Omero, Odissea, XII, 143 – 200, cit.
[23] S. D’Arrigo, Horcinus Orca, Rizzoli, 2012: «Snella
e alta con la testa che pareva sfiorare l’architrave, fasciata strettamente
dalle tenebre (…), senza volto né precisa figura, gli era apparsa una sagoma
femminile» (p. 275). «La campanella
faceva dindin, dindin, finafina (…). A quel suono da nulla (…) le fere una
dietro l’altra, abbandonavano salti, ngangà e risa e se venivano come
incantesimate ad attorniare la barca, porgendo orecchio al dindin che adescava
e ammutoliva» (p. 284). «Sì Ciccina
Circè, così m’appellarono» (p.
288). «Quella Ciccina Circè che ritrovava
invece laddèntro, che si faceva quella bella passata di cazzi ‘nglesi (…), altrochè millunanotte, altrochè arcalamecca» (p. 1045-1046).
M.
Horkheimer – T. Adorno,
Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 77: «il segno di Circe è l’ambiguità, per cui essa appare, nella vicenda,
prima in veste funesta e poi benigna; ambiguità che è espressa persino nella
sua origine: essa è figlia del Sole e nipote dell’Oceano. Gli elementi
dell’acqua e del fuoco sono in lei indistinti, ed è proprio questa
indistinzione (…) a costituire l’essenza della promiscuità, l’elemento eterico,
che brilla ancora nello sguardo della prostituta, umido riflesso delle stesse.
L’etéra concede la felicità e annulla l’autonomia di chi rende felice».
[24] Omero,
Iliade, XI 401-88, cit.: «O glorioso Odisseo, mai sazio d’inganni e
fatiche».
[25] Il Tirinzio è
l’epiteto di Ercole.
[26] Dante, Divina Commedia - Inferno,
Canto XXVI, 126.
[27] Licofrone, Alessandra, 648 – 819, cit.
[29] Dante, Divina Commedia - Inferno,
Canto XXVI, 141.
Telegono - #3 (la genesi)
Thomas Kofler |
Tutto ebbe inizio da una chiacchierata estiva al mare (guarda caso…) con il Thomas W. Kofler, il primo (e al momento unico) nuotatore italiano che è riuscito a conseguire l’ambitissima Triple Crown (http://dailynews.openwaterswimming.com/2013/08/thomas-w-kofler-becomes-italys-first.html; https://www.facebook.com/pg/CatalinaChannelSwimmingFederation/photos/?tab=album&album_id=10151671184512779)
ossia quel speciale riconoscimento che spetta solo a coloro che sono riusciti a completare tre storiche nuotate: stretto della Manica, stretto di Catalina e il periplo dell’isola di Manhattan (https://en.wikipedia.org/wiki/Triple_Crown_of_Open_Water_Swimming).
E così parlando e nuotando nel mare di Sicilia ci viene in mente che sarebbe bello arrivare a nuoto a Itaca (…ma non partendo da Ilio).
Thomas in questa cose è
“pericoloso”, si mette subito alla ricerca e in pieno e cupo inverno, quando la
nostalgia di lunghe nuotate al mare si fa sentire, trova il modo di tentare la
traversata con The Big Blue Swim, un’agenzia che organizza vacanze a nuoto in
Grecia (https://thebigblueswim.com/) e tra queste propone la traversata da
Cefalonia a Itaca (7 km circa), quale tappa finale di quattro giorni di nuotate
tra le isole intorno a Lefkada. Detto fatto: ci iscriviamo e prenotiamo un volo
low, low cost con partenza all’alba fino a Corfù e poi da lì improvvisiamo:
prendiamo un traghetto sino a Igoumenitsa e perdiamo l’unica corriera che porta
a Lefkada. E allora che si fa? E tra un non-zo, non-zo e l’altro, non ci rimane
che fare una nuotata a Igoumenitsa e via poi vedremo. E così il giorno dopo tra
un non-zo, una radler e qualche altro non-zo non-zo, riusciamo a prendere la
corriera e, finalmente, arriviamo a Lefkada. Qui ci aspetta il Mogwli (la barca
che ci accompagnerà), la nostra crew ed il resto del gruppo di nuotatori (per
lo più texani).
Ma il vento decide di adunare
nubi e spazzare il mare facendo alzare le onde e, così, il programma
prestabilito diventa una mera ipotesi da verificare ora per ora. Ma nessuno si
perde d’animo, men che meno il nostro headcrew, Noa Markou, che ogni giorno
dopo aver scrutato l’orizzonte, esaminato le carte nautiche cerca nuove rotte
da tentare a nuoto, mentre io tra una nuotata e l’altra cerco di ignorare la
mezza influenza che fedelmente mi segue dalla mattina della partenza.
Noa il nostro headcrew: "better a bad day on the water than a good day in the office" |
Arriva finalmente il 22 settembre 2017, il giorno fissato per la traversata Cefalonia- Itaca, con il meteo in deciso peggioramento: pioviggina, mare mosso e vento, tanto vento.
Ecco, Telegono, apparve quella
mattina: il Mowgli - dopo qualche tentennamento della crew e qualche
perplessità e divisione interna tra i nuotatori - aveva lasciato il piccolo
porto di Geni e faceva rotta verso Cefalonia. Il cielo era scuro e soffiava un
vento a strappi che gonfiava il mare facendo beccheggiare il Mowgli, io stavo a
prua scrutando l’orizzonte nell’attesa, impaziente, del profilarsi Itaca.
Una volta che Meganisi fu
alle nostre spalle, da lontano apparve l’isola di Arkoudi, e dopo Arkoudi, si
sarebbero profilate, fronteggiandosi, Cefalonia e Itaca.
Intanto sul versante nord-ovest cielo e
mare si facevano sempre più gonfi e scuri e parevano saldarsi, però in
lontananza verso sud-est, le nuvole stavano lasciando il passo al sole. Itaca è
apparsa così in fondo al mare verso la
notte; Cefalonia invece stava (in parte) verso il sole. Telegono si è affiancato alla prua, su una nera
barca, gli occhi fissi su Itaca, in mano bilanciava la lancia con la punta
avvelenata e iniziò a raccontarmi il suo cunti
de li cunti: … Mia madre è una maga luminosa e immortale. Mio padre un astuto marinaio
che conosce ogni sorta di inganni e di acuti pensieri. Io sono Telegono, sono colui che viene da
lontano. Vengo ex halos, come predisse Tiresia. Vengo per uccidere mio padre…
La crew del Mowgli |
Arriviamo a Cefalonia e non si sa bene che fare: tentare? abbandonare? nuotare sotto la costa di Cefalonia? Mettiamo ai voti: tentiamo la traversata o rimaniamo a nuotare sotto costa? Di stretta misura, vince l’opzione più prudente. Ma il nostro headcrew Noa, fiuta il vento, scruta il mare e non si dà per vinto, dice: iniziamo con una nuotata sotto costa poi si vedrà.
Tuffo dal Mowgli e si inizia a nuotare
sotto costa. E mentre nuoto, rimugino le parole di Telegono, borbotto tra me e
me la sfortuna di vedere Itaca così vicina e non poterla toccare. Ma mentre
nuoto ho anche la sensazione che le condizioni meteo siano cambiate. Infatti, il
cielo ha avuto un’improvvisa schiarita e il vento si è abbassato. E’quello che Noa
stava aspettando, il Mowgli cambia rotta si dirige verso Itaca e noi dietro
entusiasti. E poi accade l’inaspettato: più ci avviciniamo a Itaca, più il mare
si calma e diventa piatto, addirittura con una leggera corrente a favore che ci
sospinge gentilmente sino a toccare l’agognata spiaggia di Itaca.
Telegono
– #5
(dizionario etimologico dei nomi)
Telegono: C. Gallavotti, voce Telegono, in
Enciclopedia italiana – Treccani (1937): «Il
nome di questo personaggio mitologico è evidente nel suo significato di “figlio
nato lontano”, atto a designare in
contrapposto a Telemaco, nato da Penelope, il figlio di Ulisse e di Circe».
Ma l’eroe del nostos è Ulisse e l’icona del figlio è quella di Telemaco: «Telemaco non è solo un giovane che cerca suo
padre, ma è il giovane che ha bisogno di un padre. Telemaco è l’icona del
figlio. Anche se Odisseo fosse introvabile o morto, Telemaco avrebbe bisogno lo
stesso di un padre»[1]. Telegono, invece, è fuori
dai giochi: è il figlio sconosciuto, che ha bisogno di un padre che lo
riconosca. Telegono cerca il riconoscimento.
Riconoscimento dal padre e uccisione del padre sono tutt’uno. Solo così
Telegono viene davvero ad esistere.
Ma la Telegonia è un poema perduto, Telegono
è respinto nell’oblio, solo Telemaco è figlio e Olissi già se ne è ripartito.
E’ andato maremare, ha fondato la città di Ulixaboa (“Questi, che qui approdò / poiché non c'era cominciò ad esistere. /Senza
esistere ci bastò. / Per non essere venuto venne e ci creò”[2]) e poi ha proseguito
lontano, sempre più lontano, lo si è visto aggirare per Dublino e da ultimo
accompagnare Primo nell’anus mundi.
Circe: all’isola di
Eea, «vi abitava Circe dai riccioli
belli, dea tremenda con voce umana, sorella germana di Aiete pericoloso. Erano
nati entrami dal Sole che dà luce ai mortali e da Perse, la madre, che Oceano
ebbe per figlia»[3].
Circe, maga e deissa, è l’Incantatrice che
imbestia gli uomini che attraversano i suoi cerchi magici, all’interno dei
quali si dispiega tutta la sua potenza incantatrice: «Kirkos, foneticamente corrispondente al latino circus, che sta alla
base di circulus, si chiama in greco un volteggiante uccello da preda e anzi
una volta una specie di lupo aggirante in cerchio, in Omero un falco. Kirke ne
è il femminile. Un nome adatto a una figlia del Sole, poiché circolare è il
moto del Sole (…). Questa divina incantatrice ha da fare anche con la sfera
ctonia, come Demetra e Perfesone, i cui animali sacri sono i porci. Nel segno
di Circe che seduce e in questo sedurre è anche etéra»[4].
Ulisse: figlio di Laerte e, da
lato materno, nipote di Autolico (a sua volta figlio di Ermes). Fu proprio, Autolico, «ladro e spergiuro che, essendo in “odio” a molti, suggerì per il nipote il nome “Odisseo”: l’odiato»[5]. Si legge,
infatti, nell’Odissea, Autolico, «spiccava
tra gli uomini per ladrocinio e spergiuro (…). Arrivando nel ricco paese di
Itaca, Autolico aveva trovato il figlio neonato di sua figlia (…) disse: Genero
mio, figlia mia, mettetegli il nome che dico: io vengo qui con odio per molti,
uomini e donne sulla terra molto ferace, e si chiami Odisseo di nome»[6].
Tale condizione di uomo in odio agli dèi e agli uomini, emerge
quando Ulisse, trascinato dai venti
riapproda nell’isola di Eolo, qui il signore dei venti «capisce in un lampo che è in odio agli déi e
lo scaccia. A provare che gli dèi gli erano ostili è la sua condizione
infelice, che permane, malgrado l’aiuto decisivo di Eolo. Anche Odisseo ora sa
di più: sa che gli dèi lo avversano e da che i compagni lo ostacolano»[7].
Ulisse
(altri nomi di): Odisseo «è sagace (daiphron); accorto (polymetis);
ingegnoso (polymechanos); capace di
connettere idee diverse (poikilometes)»;
nonché, «tessitore di trappole, insidie,
inganni (doloplokos)»[8]. Nel «poema Odisseo non è mai astuto in senso
fraudolento. Il termine “astuto”, con
cui si traduce tradizionalmente polymetis, altera la sua immagine, perché ingloba forti valenze negative che nel
termine greco erano flebili o assenti. Odisseo è accorto, più che astuto: è riflessivo,
avveduto, inventivo, versatile»[9].
Outis: Odisseo dice a Polifemo di chiamarsi Outis, dice un
«nome bifronte, che dal nome in cui viene
pronunciato – con accento circonflesso o con accento acuto sulla radicale – può
significare nessuno, nel senso che una persona non è nessuno, non ha valore, è
una nullità; oppure “nessuno” in
funzione di pronome come nella proposizione “nessuno è qui”. Il primo dei due onomini nega il valore, il
secondo nega l’esistenza. Nel dire il falso nome, Odisseo – come un astuto e
sarcastico grammatico – pregusta il momento in cui Polifemo, ormai accecato
risponderà ai Ciclopi accorsi alle sue urla che “uno da nulla” lo oltraggia, mentre essi capiranno che
“nessuno” lo oltraggia»[10]. Secondo Horkheimer – Adorno «Odisseo si accorge del dualismo, in quanto apprende che la stessa parola
può significare cose diverse. Poiché il nome Udeis può coprire altrettanto bene
l’eroe e nessuno, egli può spezzare l’incantesimo del nome (…). I due atti
contrastanti di Odisseo nell’incontro con Polifemo, la sua obbedienza al nome e
il suo svincolarsi da esso, sono pur sempre una cosa sola. Egli afferma sè
stesso rinnegandosi come nessuno, salva la propria vita facendola scomparire
(…). Ciò che, in realtà, accade è che
il soggetto-Odisseo rinnega la propria identità, che ne fa un soggetto, e si
conserva in vita assimilandosi all’amorfo». Ma chi per «salvarsi si chiama Nessuno e adopera
l’assimilazione allo stato di natura come mezzo di dominio della natura cade in
preda dell’hybris»[11]. Difatti, il nome che «prima era stato occultato per sfuggire ai Ciclopi, diventa alla fine il
perno dell’intera Odissea: Odisseo si salva tacendolo e si perde svelandolo»[12].
Sirena: «l’etimologia
del nome “Sirena” potrebbe
ricollegarsi al greco seir£ (corda, fune), sicché sirena sarebbe “colei che incatena, che avvince”»[13]. Secondo Reale, oltre che
a seira, laccio da presa, Sirena
viene anche da «seirazein, “prosciugare”; o
come si ritiene più comunemente, da seirios, “bruciante” (da cui anche Sirio, l’astro della canicola)»[14].
Lighea (la melodiosa):
il nome «Lighea, “colei che ha la
voce chiara”, prima ancora della voce
stessa seducente, forse ingannatrice (seira, laccio da presa, serein, arte
di conquistare affascinando), e il
suo comparire nelle acque dell’Italia meridionale, ci riportano d’obbligo al
grande mito mediterraneo del “Navigatore avventuroso”, da cui probabilmente Omero trasse il celebre episodio del XXI Canto dell’Odissea.
L’iconografia classica, si sa, conobbe soltanto Sirene metà fanciulle e metà
uccelli, cosi ridotte dallo sdegno di Afrodite, secondo alcuni, dalla rabbia di
Demetra a sentire altri, o su loro richieste, Bisogna attendere il Liber
monstrorum del IX – X secolo per trovare
le prime Sirene dalle squamose code di pesce»[15].
Itaca: «Sono Odisseo di Laerte, che per tutte le
astuzie sono conosciuto agli uomini, e la mia fama va al cielo. Abito Itaca
aprica: un mone c’è in essa, il Nerito, sussurro di fronde, bellissimo; intorno
si affollano isole molte, vicine una all’altra, Dulìchio, Same e la selvosa
Zacinto. Ma essa è bassa, l’ultima là in fondo al mare verso la notte: l’altre
più avanti verso l’aurora e il sole»[16].
Penelope: «Penelope, colei che in apparenza è la
tessitrice puramente umana dell’Odissea, è a un tempo quella che disfa il
proprio lavoro. Il suo tessere corrisponde (…) al filare delle Moire. Forse
anche il suo nome di uccello (penelops significa anatra) tradisce qualcosa
della sua condizione pre-omerica: la figura dell’anatra (…) accenna
presumibilmente a una grande dea dell’origine della vita e della morte»[17]. Nel nome di Penelope «era
contenuta la parola penélops, “l’anitra”, la cui immagine in coppe antiche,
trovate nei sepolcri indica così spesso una buona dea protettrice»[18].
Calipso: Scrive Citati: «sebbene reciti la parte della divinità
minore, Calipso è una dea molto più potente e vasta di quanto appaia. Essa è la
regina del centro: una divinità antichissima; forse conserva nella voce il
ricordo della voce elle divinità titatniche, un suono arcaico e terrificante,
nascosto dietro l’amabile parola umana che ha appreso a modulare (…). Vive sola, più sola di Circe (…), Calipso, dice quasi impaurito Ulisse ad
Alcinoo, “non la visita mai nessun dio né uomo mortale”. Se vive così terribilmente sola, è perché
sta nell’ombelico del mare: soltanto a patto di essere sola, può occupare il
centro e di lì governare, nascosta, e
di nascosto (come dice il suo nome) il cuore del mare e forse delle cose»[19].
[1] G.A. Privitera, Il ritorno del guerriero, Einaudi, Torino, 2005, p. 64.
[2] F. Pessoa, Ulisse, in Poesie scelte, a cura di L.
Panarese, prefazione di M. Breda,
Passigli, Firenze, 1993-2006: «Il mito è
quel nulla che è tutto. / Lo stesso sole che apre i cieli / è un mito brillante
e muto - / il corpo morto di Dio / vivente e nudo. / Questi, che qui approdò /
poiché non c'era cominciò ad esistere. / Senza esistere ci bastò. / Per non
essere venuto venne / e ci creò. / La leggenda così si dipana, / penetra la
realtà / e a fecondarla decorre. / La vita, metà di nulla, / in basso muore».
[3] Omero, Odissea, X, 135, nella traduzione di G.A. Privitera, per Fondazione Valla, 2007, vol. III.
[4] K. Kerényi, Figlie del sole, Bollati Boringhieri, Milano, 2008, trad. F. Barberi, p. 68 e p. 70.
[5] G.A. Privitera, Il ritorno del guerriero, Einaudi, Torino, 2005, p. 35.
[6] Omero, Odissea, XIX, 386 e ss., nella traduzione di G.A. Privitera, cit.
[7] G.A. Privitera, Il ritorno del guerriero, cit.,
p. 155.
[8] G.A. Privitera, Il ritorno del guerriero, cit.,
p. 49 e p. 51.
[9] G.A. Privitera, Il ritorno del guerriero, cit.,
p. 278.
[10] G.A. Privitera, Il ritorno del guerriero, cit.,
p. 149.
[11] M. Horkheimer – T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi,
Torino, 1997, p. 69 e ss.
[12] G.A. Privitera, Il ritorno del Guerriero, cit., p. 150.
[13] F. Cristiano, Terina e il mito della sirena Lighea, in https://www.panorama-numismatico.com/wp-content/uploads/09-15-terina-.pdf
[14] B. Reale, Sirene siciliane, Moretti & Vitali, Bergamo, 2001, p. 46.
[15] B. Reale, Sirene siciliane, cit.,
pp. 46-47.
[16] Omero, Odissea IX, 20, trad. R.
Calzecchi Onesti, cit.
[17] K. Kerényi, Figlie del sole, cit., p.
73.
[18] K. Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, Il Saggiatore, Milano, 1980, trad.
V. Tedeschi, p. 302.
[19] P. Citati, La mente colorata, Mondadori, Milano, 2002, pp. 126-127.