Dicono che la loro malia più
potente sia il loro cedevole canto.
Altri, dicono, il silenzio.
E ciononostante le chiamano
anche potenti cantatrici. Di limpido canto. Di voce chiara. E ingannevole. Ma
per altri hanno voce balba, sia pur che in mezzo al mar dismaga. Millunanotte loquenti le chiamano
sullo Stretto.
Si dice che il suono della loro
voce sia gutturale, ma dotato di innumerevoli armonici. Promettono anche che
sia un suono di miele e infinito.
“Quid sirenes cantare sint solitae?”, chiedeva
invano Tiberio Imperatore.
“Seule la promesse d’un chant
futur parcourt leur melodie”, discetta un filosofo francese.
“Corbèra, il loro canto non
esiste”, cunta il senatore La Ciura.
Adagiate su foglie di lattuga e
guarnite di coralli, si racconta che alcune le imbandirono ai Liberators, nei
giorni folli che seguirono la
liberazione di Napoli.
Altri si riempirono le orecchie
di cera per non ascoltarle.
Dicono di sapere quel che
accadde sulla terra ferace.
Di madre incerta, le dicono
figlie della leggiadra Tersicore. Altri della tragica Melpomene. Ma le chiamano
anche figlie di Calliope.
Di sicuro sono figlie di
Acheloo, il fiume. [Pare]
Di padre certo e madre incerta,
rovesciano i detti in contraddetti.
Dicono che fasci di catene
vennero usati contro la loro seduzione. Oppure erano corde con nodi stretti?
Ma seiren, laccio, è il loro
nome.
Alcuni le danno per morte. Altri
per immorali. Ad altri ancora pare di intravederne il bagliore tra la spuma di
mare.
Dicono siano due, o forse tre,
oppure molte di più, magari solo una. I loro nomi variano per capricci
geografici: Lighea, Partenope, Leucotea, Lorelei, Ondina.
Alcuni parlano di punizioni
metamorfiche in uccelli.
Altri di dolorose metamorfosi in
creature umane.
Brave a remigare sopra i flutti,
per alcuni hanno ali di uccello. Per altri, squamosa e biforcuta coda di pesce.
Per alcuni uccidono.
Per altri amano soltanto.