Le Argonautiche (a nuoto all'Elba)
In fuga dalla lontana e selvaggia Colchide[1],
dopo averne combinate di ogni: seduzione e rapimento (?!?) di Medea[2];
furto del vello d’oro[3];
smembramento del giovane Apsirto[4]
(solo per ricordane alcune), gli Argonauti[5]
sfiniti approdarono all’isola di Etalia (l’attuale Elba), dove lasciarono la
loro traccia più duratura (fonte Apollonio Rodio).
Difatti, la leggenda narra che la spiaggia delle
Ghiaie, sia proprio la spiaggia lucente, dove gli Argonauti, detersero il loro copioso
sudore con delle pietruzze e ci rassicura Apollodoro Rodio che “molte simili ci sono ancora su quella
spiaggia – se i turisti non se le tutte portano via - e così pure i dischi, e altri resti illustri dei Minii, là dove il
porto ha preso il nome di Argo”.
Poi il loro viaggio proseguì avanzando
rapidamente sulle acque del mare in vista delle coste tirreniche.
Lí la nave Argo, sulla quale Atena, la dea
tritonide, aveva innestato una polena parlante a forma di Ariete ricavata dalla
quercia di Dodona, consiglió a Giasone di far rotta all’isola di Eea (regno
della Maga Circe) per i riti di purificazione dall’orrendo delitto, e ripartire
verso lo Scillecariddi[6]
dopo aver gareggiato in canto con le Sirene (del resto, avevano Orfeo come loro
campione[7]).
Da allora, sulla spiaggia delle Ghiaie le
raschiature prodotte dagli strigili degli Argonauti si trovano indurite sui
ciottoli e l’onda marina non le lava via, né le deterge la pioggia di nevischio
interminabile (fonti: Strabone, Apollonio Rodio, Licofrone).
La leggenda narra anche, che Giasone, ormai
vecchio, stanco e sopraffatto dal dolore (suvvia non si tradisce Medea impunemente!)
si addormentò sotto il fasciame cadente della nave Argo e la prua parlante,
impietosita, lo colpì sul cranio mettendo fine ai suoi giorni (fonti: Apollonio,
Graves).
Poi la polena riprese il mare e, allora, la
leggenda narra ancora che i nuotatori che attraversano il mare per approdare
alla spiaggia lucente, la trovino lì sul bagnasciuga pronta a prendere il largo
per altre avventure (fonte incerta, forse, pseudo-Peron).
[1] La Colchide (l’attuale
Georgia) è una regione sul Mar Nero, ossi agli estremi confini del mondo greco
allora conosciuto.
[2] Medea è figlia di Eeta
re della Colchide (a sua volta fratello di Circe e di Pasifae) e della Oceanie
Idya. Tuttavia, secondo un’altra leggenda Medea sarebbe figlia della notturna
dea Ecate e sorella di Circe.
[3] Il trono di Iolco è
stato usurpato a Esone dal fratellastro Pelia. Quando il giovane (e bellissimo)
Giasone reclama la restituzione del regno usurpato al padre, Pelia pone come condizione
che egli riporti in Tessaglia il Vello d’Oro.
Si tratta de vello del montone sul quale i
due giovani Frisso ed Elle erano volati via per scampare al sacrificio del loro
padre Atamante. Elle cade in mare (e da allora quel tratto di mare si chiama
Ellesponto), Frisso giunto nella lontana Colchide, sacrifica il montone e consacra
il vello nel bosco del dio Ares, facendolo sorvegliare da un serpente sempre
vigile e accudito e nutrito proprio da Medea.
[4] Apsirto è il fratello di
Medea
[5] Gli eroi che si unirono
a Giasone e salparono sulla nave Argo alla ricerca del Vello d’oro sono 55, tra
questi i più noti sono, oltre a Giasone, Castore e Polluce, Orfeo, Meleagro,
Piritoo, Eracle.
[6] “Sul quadrivio del mare.
Da un lato sporgeva lo scoglio liscio di Scilla, dall’altro rumoreggiava
Cariddi con scrosci infiniti; altrove ruggivano, sotto gli enormi marosi, le
Plancte, e là dove prima era scaturita la fiamma dalla cima degli scogli, sopra
la roccia infuocata, l’aria era scura dal fumo e non si vedevano i raggi del
sole. E anche allora, sebbene Efesto avesse smesso il lavoro, il mare esalava
un caldo vapore” (Apollonio Rodio).
[7] “Ben presto furono in
vista di Antemoessa, l’isola bella dove le melodiose Sirene, figlie
dell’Acheloo, incantano e uccidono col loro canto soave chiunque vi approdi. Le
partorì ad Acheloo la bella Tersicore, una Musa; un tempo servivano la grande
figlia di Deo, quando ancora era vergine, e cantavano insieme; ma ora
sembravano in parte uccelli, in parte giovani donne. E stando sempre in agguato
al di sopra del porto, 900 tolsero a molti, consumandoli nel languore, il dolce
ritorno. E anche per loro, senza esitare mandavano l’incantevole voce, e quelli
già stavano per gettare a terra le gomene, se il figlio di Eagro, il tracio
Orfeo, non avesse teso nelle sue mani la cetra bistonica, e intonato un canto
vivace, con rapido ritmo, in modo che le loro orecchie rimbombassero di quel
rumore, e la cetra ebbe la meglio sulla voce delle fanciulle”.