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venerdì 1 marzo 2019

Le Argonautiche (a nuoto all'Elba)



Le Argonautiche (a nuoto all'Elba)



In fuga dalla lontana e selvaggia Colchide[1], dopo averne combinate di ogni: seduzione e rapimento (?!?) di Medea[2]; furto del vello d’oro[3]; smembramento del giovane Apsirto[4] (solo per ricordane alcune), gli Argonauti[5] sfiniti approdarono all’isola di Etalia (l’attuale Elba), dove lasciarono la loro traccia più duratura (fonte Apollonio Rodio).



Difatti, la leggenda narra che la spiaggia delle Ghiaie, sia proprio la spiaggia lucente, dove gli Argonauti, detersero il loro copioso sudore con delle pietruzze e ci rassicura Apollodoro Rodio che “molte simili ci sono ancora su quella spiaggia – se i turisti non se le tutte portano via - e così pure i dischi, e altri resti illustri dei Minii, là dove il porto ha preso il nome di Argo”.

Poi il loro viaggio proseguì avanzando rapidamente sulle acque del mare in vista delle coste tirreniche.
Lí la nave Argo, sulla quale Atena, la dea tritonide, aveva innestato una polena parlante a forma di Ariete ricavata dalla quercia di Dodona, consiglió a Giasone di far rotta all’isola di Eea (regno della Maga Circe) per i riti di purificazione dall’orrendo delitto, e ripartire verso lo Scillecariddi[6] dopo aver gareggiato in canto con le Sirene (del resto, avevano Orfeo come loro campione[7]).


Da allora, sulla spiaggia delle Ghiaie le raschiature prodotte dagli strigili degli Argonauti si trovano indurite sui ciottoli e l’onda marina non le lava via, né le deterge la pioggia di nevischio interminabile (fonti: Strabone, Apollonio Rodio, Licofrone).






La leggenda narra anche, che Giasone, ormai vecchio, stanco e sopraffatto dal dolore (suvvia non si tradisce Medea impunemente!) si addormentò sotto il fasciame cadente della nave Argo e la prua parlante, impietosita, lo colpì sul cranio mettendo fine ai suoi giorni (fonti: Apollonio, Graves).




Poi la polena riprese il mare e, allora, la leggenda narra ancora che i nuotatori che attraversano il mare per approdare alla spiaggia lucente, la trovino lì sul bagnasciuga pronta a prendere il largo per altre avventure (fonte incerta, forse, pseudo-Peron).



















[1] La Colchide (l’attuale Georgia) è una regione sul Mar Nero, ossi agli estremi confini del mondo greco allora conosciuto.
[2] Medea è figlia di Eeta re della Colchide (a sua volta fratello di Circe e di Pasifae) e della Oceanie Idya. Tuttavia, secondo un’altra leggenda Medea sarebbe figlia della notturna dea Ecate e sorella di Circe.
[3] Il trono di Iolco è stato usurpato a Esone dal fratellastro Pelia. Quando il giovane (e bellissimo) Giasone reclama la restituzione del regno usurpato al padre, Pelia pone come condizione che egli riporti in Tessaglia il Vello d’Oro.
Si tratta de vello del montone sul quale i due giovani Frisso ed Elle erano volati via per scampare al sacrificio del loro padre Atamante. Elle cade in mare (e da allora quel tratto di mare si chiama Ellesponto), Frisso giunto nella lontana Colchide, sacrifica il montone e consacra il vello nel bosco del dio Ares, facendolo sorvegliare da un serpente sempre vigile e accudito e nutrito proprio da Medea.
[4] Apsirto è il fratello di Medea
[5] Gli eroi che si unirono a Giasone e salparono sulla nave Argo alla ricerca del Vello d’oro sono 55, tra questi i più noti sono, oltre a Giasone, Castore e Polluce, Orfeo, Meleagro, Piritoo, Eracle.
[6] “Sul quadrivio del mare. Da un lato sporgeva lo scoglio liscio di Scilla, dall’altro rumoreggiava Cariddi con scrosci infiniti; altrove ruggivano, sotto gli enormi marosi, le Plancte, e là dove prima era scaturita la fiamma dalla cima degli scogli, sopra la roccia infuocata, l’aria era scura dal fumo e non si vedevano i raggi del sole. E anche allora, sebbene Efesto avesse smesso il lavoro, il mare esalava un caldo vapore” (Apollonio Rodio).
[7] “Ben presto furono in vista di Antemoessa, l’isola bella dove le melodiose Sirene, figlie dell’Acheloo, incantano e uccidono col loro canto soave chiunque vi approdi. Le partorì ad Acheloo la bella Tersicore, una Musa; un tempo servivano la grande figlia di Deo, quando ancora era vergine, e cantavano insieme; ma ora sembravano in parte uccelli, in parte giovani donne. E stando sempre in agguato al di sopra del porto, 900 tolsero a molti, consumandoli nel languore, il dolce ritorno. E anche per loro, senza esitare mandavano l’incantevole voce, e quelli già stavano per gettare a terra le gomene, se il figlio di Eagro, il tracio Orfeo, non avesse teso nelle sue mani la cetra bistonica, e intonato un canto vivace, con rapido ritmo, in modo che le loro orecchie rimbombassero di quel rumore, e la cetra ebbe la meglio sulla voce delle fanciulle”.