Il Mediterraneo è
pieno di storie,
ogni onda, ogni refolo
ne racconta una
(Mimmo Rando, Il mondo illuminato)
Il mio regno si estende su sette isole
che sono anche sette vulcani. È qui che raduno i venti e poi li libero per il
mondo, perché signore dei venti mi fece il Cronide e posso fermarli o destarli
tutti a mio piacimento. Io donai a Odisseo l’otre panciuto, di cui narrò la
Musa, liberando solo Zefiro che leggero avrebbe sospinto la sua nave fino alla
pietrosa Itaca. E sapevo che l’avrebbero aperto, quell’otre, scatenando una
mala tempesta. Perché già erano condannati e solo uno avrebbe fatto ritorno, ma
dopo ancora lungo e periglioso peregrinare e per solo per finire accìsu da un
figlio sconosciuto.
Mi chiamano divinità minore e già sarei
dimenticato se non fosse per queste sette isole che portano il mio nome:
Aíolos.
Ogni tanto faccio ritorno sotto svariate
forme. In questo momento che vi dico parola, ho preso la forma di un canazzo
bianco ed ho la mia casa sotto il ponte di Marina Corta a Lipari. Per lo più
attendo. Il diverso movimento delle onde mi dice in anticipo quando sta per
arrivare un ferribò o un aliscafo o una di quelle barcuzze di pescatori e,
allora, mi preparo. Con noncuranza, senza dare confidenza ad alcuno salgo sulla
passerella e mi sistemo a prora. Mi presento con regolarità a tutti gli
attracchi e con altrettanta regolarità riparto. Passando, a seconda
dell’occasione, da un ferribotti a un aliscafo o a qualche altra barca, faccio
il giro del variegato circuito del mio regno eolico. A volte mi avventuro anche
più in là, Milazzo, Palermo … e di tanto in tanto mi spingo a dare qualche
annusata alla città di Partenope.
All’inizio i marinai mi scambiavano per
il cane di un qualche turista e i turisti per il cane del capitano, i più
sospettosi mormoravano che ero il cane della Guardia di Finanza, mandato a
fiutare frodi ed inganni. Scoperta la mia natura di cane libero, ragionarono se
farmi oggetto di provvedimenti restrittivi, infine, optarono per
lasciarmi andare per mare: con me a bordo il vento soffia sempre docile e
benigno e una grande, insensata, allegrezza si diffonde tra questi miseri
mortali.
Ecco, dunque, che me ne stavo a Marina
Corta, placidamente steso sulla rena, quando l’ho sentito arrivare.
Impossibile non riconoscere quel passo
aiólos. Per manifestarsi ha preso la forma di un ragazzetto magro, ricciuto e
insolente. Ho chiuso gli occhi e finto di dormire. L’inviato dagli Dèi, re dei
furfanti e guida delle anime presso la casa oscura, è da sempre latore di
messaggi sgraditi.
Si è seduto al mio fianco e ha parlato
parola:
- La figlia di Cadmo e Armonia, Ino, è
qui a ripetere il sacrificio per ritornare Leucotea, la dea bianca del mare.
Son rimasto immobile con gli occhi
chiusi, pretendendo che non fosse lì. Ma quando ha fatto ballonzolare davanti
al mio testone una salsiccia, son scattato e l’ho fatta sparire in un attimo.
Poi mi son tirato su, il ragazzetto già stava scomparendo nella scia luminosa
di un raggio di sole, non prima però di avermi detto l’ultima paroletta:
- Ha smarrito la via, devi aiutarla a
tornare e anche tu devi tornare. Così han decretato.
Allora ho interrogato Shurhùq, il vento
di mezzogiorno, che soffia dall’inferno marino per andarsene, tutto umidiccio e
fracido, a vagabondare nelle strade ed entrare indiscreto casa per casa.
- Leucò è in viaggio – m’ha detto – ha
già lasciato la grigia Città della Scrofa a breve arriverà a Napoli.
La sera che è arrivata ero già sul
ferribotti per Vulcano: l’attendevo a guardia delle valigie dei turisti.
Mi ha visto, ha avuto un attimo di
incertezza, ha appoggiato la valigia ed è proseguita con passo
spedito. Il suo velo bianco mi ha sfiorato appena.
Gli ho mandato dietro Zefiro, che è un
vento leggero e le vuole bene. Gli si è intorcigliato tra i capelli lunghi e
bianchi e le ha accarezzato le gambe sollevandole la veste. Ho visto allora
frastagliate cicatrici sul ventre e un netto e lungo taglio sul seno sinistro
appena sotto il cuore. Delle cicatrici sulla sua anima invece si perde il
conto.
Abbiamo quattordici ore di navigazione e
stiamo per varcare la soglia spietata delle tenebre.
Leucotea non tiene abbèntu: si siede, si
alza, va a prendersi un caffè, esce, si affaccia sul mare, scruta l’orizzonte,
rientra si risiede, si torce le mani e si rialza. Non parla con nessuno, non
sorride a nessuno. Gentile e distante. Sono sempre al suo fianco, lei mi ignora,
ma il suo velo bianco, di tanto in tanto, mi solletica il naso, come a dirmi:
sono qui.
Eccoci in alto mare aperto. Mi alzo, mi
stiro e la fisso con insistenza. Leucò dapprima rifugge il mio sguardo, poi fa
cenno di sì con la testa:
- Sì, sono pronta – dice e, lentamente,
saliamo sul punto più alto del ferribotti.
Da lì, con un lungo ululato, chiamo il
Libéccio, che è un vento improvviso, rabbioso, pazzo e ladro. Leucotea si
sporge sulla balaustra della prua. Il Libéccio cala come un ariete sulle onde, con
forti raffiche alza una criniera maestosa di spuma. Il mare mugghia e
biancheggia.
- Adesso Leucò – dico – è ora del gran
salto. Il salto nel mare.
Dal traghetto suonano le sirene, viene
dato l’allarme: uomo in mare. Anzi donna. Donna e cane in mare.
- Ma come fu? Eh? Come fu?
- Parevano du fantasmi, u cani jancu,
idda pure janca, i capiddri, la veste, il velo. Tutto jancu di spuma era il mare pure. Jancu e niuro di
tenebra spissa.
- Arrivò una grande ondata e la fimmina
saltò. Fici un gran saltuni, senza dire parola e appena toccò l’acqua, sparìu.
La coprì un’onda scura.
- Il canazzo, saltò subito darrè, ma – e
te lo giuro – non cadde in acqua, se lo pigghiò il vento.
- Il cane involato, la femmina sparita e
poi appresso quel gran cornuto del Libéccio s’è ammansito.
Dal rapporto alla Capitaneria di
Milazzo: Il mare è stato perlustrato palmo a palmo, ma abbiamo ritrovato solo
un velo bianco tutto stracciato. Tuttavia, segnaliamo che dall’esame del
registro passeggeri, non manca nessuno, ci sono tutti uomini e bestie e categoricamente
si esclude la presenza di clandestini a bordo. Forse erano due fantasmi o forse
in quella notte di mala tempesta, ai marinai si è confusa la vista. Del resto,
questo mare è pieno di storie, ogni onda, ogni refolo ne racconta una.
Fonti
1. Stefano Malatesta, Il cane che andava per mare,
Neri Pozza, 2000:
2. G. Aurelio Privitera, Il ritorno del guerriero,
Einaudi, 2005, p. 152: «Aíolos richiama superficialmente l’aggettivo aiólos, rapido
o screziato: i due termini sono indipendenti. Eolo ha il potere di domare i
venti ma non è né un dio né il signore dei venti che sono immortali. Questo
potere gliel’ha dato Zeus: il Cronide lo fece custode dei venti, sia di
arrestare sia di eccitare quello che vuole».
3. Giulio Guidorizzi, Il mito Greco – Gli dèi, Meridiani
Mondadori, 2009, p. 2021: «Naufrago tra le onde rabbiose del mare in tempesta
Odisseo viene soccorso da una dea che gli appare improvvisamente accanto: è Ino
Leucotea, la “Dea Bianca, la quale gli presta un velo magico che lo salverà
dalla furia del mare. Ino però non era sempre stata una dea: lo divenne quando
precipitò nel mare da una rupe insieme al figlioletto Melicerte. Durante questo
gran salto, mentre cadeva, si compì la trasformazione e la donna mortale
divenne un essere marino capace di materializzarsi come gabbiano o come spuma (…).
Il “salto nel mare era un gesto simbolico frequente nei riti di passaggio. L’istante
in cui dalla vertigine dell’abisso un corpo entra nel mare e quindi passa da un
elemento all’altro, esprime simbolicamente il passaggio dello stadio della
morte a quello della rinascita. Il momento del tuffo, quando il corpo ondeggia
nell’aria già saccato dalla terra ma ancora non sprofondato nel nuovo elemento,
è quello in cui avvengono in genere le metamorfosi. Così Ino divenne Leucotea e
Melicerte fu chiamato Palemone».
4. Omero, Odissea, traduzione G.A. Privitera, Mondadori,
2020, Libro, V, 325-350: «Un grande maroso lo portava con la corrente qua e là.
Come quando per la pianura Borea d’autunno trascina i cardi, ed essi si tengono
stretti e ammucchiati, così lo portavano i venti sul mare qua e là: ora Noto
gettava la barca a Borea, che la spingesse, ora Euro l’abbandonava a Zefiro,
che l’inseguisse. Lo scorse la figlia di Cadmo, Ino dalle belle caviglie,
Leucotea, che era mortale un tempo, con voce umana, e ora tra i gorghi del mare
ha in sorte onori divini. Ebbe pietà di Odisseo che errava soffrendo dolori: come
una procellaria emerse a volo dall’acqua, si posò sulla barca e gli disse: (…)
Ma tu fa così – non mi sembri uno sciocco: togliti questi vestiti, abbandona ai
venti la zattera, e cerca d’arrivare a braccia, nuotando, nella terra dei
Feaci, dove è destino che scampi. Ecco, stendi sotto il petto questo velo
immortale: non aver timore di soffrire o morire. Ma appena toccherai con le mani
la terra, scioglilo e gettalo subito nel mare scuro come il vino, molto lontano
da terra e tu voltati via. Detto così, la dea gli diede il suo velo, e come una
procellaria si immerse subito nel mare ondoso: la coprì l’onda scura».
5. Ovidio, Le metamorfosi, a cura di Enrico Oddone,
Bompiani, 1989, Libro, IV, 525: «Sopra la distesa marina, si erge una
scogliera; la parte più bassa è profondamente erosa dai flutti e copre e
protegge le onde dall’acqua del cielo; la parte più alta svetta e protende la
fronte sull’aperto mare. Ino la raggiunge – la follia le aveva accresciuto le
forze – e non trattenuta da nessun timore, sé getta con il suo carico nelle acque
agitate: al tonfo l’acqua biancheggiò di schiuma».
6. Curzio Malaparte, Maledetti Toscani, Vallecchi,
1969: «Dal mare soffia il libeccio, che è un vento improvviso violento, pazzo e
ladro. Vien dal Marocco, vien dalla Spagna, è un vento scappato di galera, e si
rifà come può della lunga prigionia. Piomba come un ariete sulle onde sparse,
le cozza, le raduna, le spinge, simili a un gregge di pecore ammattite, contro
i lidi bianchi, le scogliere purpuree, i moli neri di carbone. Cala come un
falco sulle vele, e le lacera: lembi di vela volano via nel turbine, come
colombe. Il suo sibilo lungo e rabbioso, tagliente come un falcetto, recide l'erba
dei pascoli marini, dove ruzzano branchi di cavalli dalla criniera di spuma,
che il sibilo improvviso sparpaglia di galoppo sul mare verde striato di lunghi
nitriti bianchi. L'orizzonte si spezza, dalle prigioni d'Algeria e di Spagna
evadono a frotte i prigionieri seminudi, urlanti di gioia. Dai fianchi dei
velieri infranti dalla bufera, caccian fuori la testa ciurme ubriache, la
lingua screpolata e gonfia dallo scorbuto. Torme di cani in furore latrano su
per i monti e in fondo alle valli che fan le onde infuriate (…). Lo scirocco
soffia dall'Elba, soffia dall'Isola del Giglio, soffia dall'inferno marino, un
vento molle e sudato, un soffio pigro e bighellone, che girella per le strade
lasciando dietro di sé un lezzo di tabacco e di vino, di pesce marcio e di
catrame. “Fete di formaggio” dicono in Sicilia dello scirocco. Un vento
panciuto, grinzoso, tutto ciccia 116 e pelle, dalle immense mani pelose che ti
tappan la bocca, ti accarezzano le guance, ti scivolano lungo le braccia, lungo
il filo della schiena: e ti rimane sul corpo un molle solco sudaticcio».
7. Mimmo Rando, Il mondo illuminato, Rubettino,
2019 / Omero al Faro, Rubettino, 2016.
8. Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Mondadori,
1972.
9. Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi,
2004.