Pensieri liquidi

venerdì 1 novembre 2024

Leucotea ritorna

 

Il Mediterraneo è pieno di storie,

ogni onda, ogni refolo

ne racconta una

(Mimmo Rando, Il mondo illuminato)

Il mio regno si estende su sette isole che sono anche sette vulcani. È qui che raduno i venti e poi li libero per il mondo, perché signore dei venti mi fece il Cronide e posso fermarli o destarli tutti a mio piacimento. Io donai a Odisseo l’otre panciuto, di cui narrò la Musa, liberando solo Zefiro che leggero avrebbe sospinto la sua nave fino alla pietrosa Itaca. E sapevo che l’avrebbero aperto, quell’otre, scatenando una mala tempesta. Perché già erano condannati e solo uno avrebbe fatto ritorno, ma dopo ancora lungo e periglioso peregrinare e per solo per finire accìsu da un figlio sconosciuto.

Mi chiamano divinità minore e già sarei dimenticato se non fosse per queste sette isole che portano il mio nome: Aíolos.

Ogni tanto faccio ritorno sotto svariate forme. In questo momento che vi dico parola, ho preso la forma di un canazzo bianco ed ho la mia casa sotto il ponte di Marina Corta a Lipari. Per lo più attendo. Il diverso movimento delle onde mi dice in anticipo quando sta per arrivare un ferribò o un aliscafo o una di quelle barcuzze di pescatori e, allora, mi preparo. Con noncuranza, senza dare confidenza ad alcuno salgo sulla passerella e mi sistemo a prora. Mi presento con regolarità a tutti gli attracchi e con altrettanta regolarità riparto. Passando, a seconda dell’occasione, da un ferribotti a un aliscafo o a qualche altra barca, faccio il giro del variegato circuito del mio regno eolico. A volte mi avventuro anche più in là, Milazzo, Palermo … e di tanto in tanto mi spingo a dare qualche annusata alla città di Partenope.

All’inizio i marinai mi scambiavano per il cane di un qualche turista e i turisti per il cane del capitano, i più sospettosi mormoravano che ero il cane della Guardia di Finanza, mandato a fiutare frodi ed inganni. Scoperta la mia natura di cane libero, ragionarono se farmi oggetto di provvedimenti restrittivi, infine, optarono per lasciarmi andare per mare: con me a bordo il vento soffia sempre docile e benigno e una grande, insensata, allegrezza si diffonde tra questi miseri mortali.

Ecco, dunque, che me ne stavo a Marina Corta, placidamente steso sulla rena, quando l’ho sentito arrivare.

Impossibile non riconoscere quel passo aiólos. Per manifestarsi ha preso la forma di un ragazzetto magro, ricciuto e insolente. Ho chiuso gli occhi e finto di dormire. L’inviato dagli Dèi, re dei furfanti e guida delle anime presso la casa oscura, è da sempre latore di messaggi sgraditi.

Si è seduto al mio fianco e ha parlato parola:

- La figlia di Cadmo e Armonia, Ino, è qui a ripetere il sacrificio per ritornare Leucotea, la dea bianca del mare.

Son rimasto immobile con gli occhi chiusi, pretendendo che non fosse lì. Ma quando ha fatto ballonzolare davanti al mio testone una salsiccia, son scattato e l’ho fatta sparire in un attimo. Poi mi son tirato su, il ragazzetto già stava scomparendo nella scia luminosa di un raggio di sole, non prima però di avermi detto l’ultima paroletta:

- Ha smarrito la via, devi aiutarla a tornare e anche tu devi tornare. Così han decretato.

Allora ho interrogato Shurhùq, il vento di mezzogiorno, che soffia dall’inferno marino per andarsene, tutto umidiccio e fracido, a vagabondare nelle strade ed entrare indiscreto casa per casa.

- Leucò è in viaggio – m’ha detto – ha già lasciato la grigia Città della Scrofa a breve arriverà a Napoli.

La sera che è arrivata ero già sul ferribotti per Vulcano: l’attendevo a guardia delle valigie dei turisti.

Mi ha visto, ha avuto un attimo di incertezza, ha appoggiato la valigia ed è proseguita con passo spedito. Il suo velo bianco mi ha sfiorato appena.

Gli ho mandato dietro Zefiro, che è un vento leggero e le vuole bene. Gli si è intorcigliato tra i capelli lunghi e bianchi e le ha accarezzato le gambe sollevandole la veste. Ho visto allora frastagliate cicatrici sul ventre e un netto e lungo taglio sul seno sinistro appena sotto il cuore. Delle cicatrici sulla sua anima invece si perde il conto.

Abbiamo quattordici ore di navigazione e stiamo per varcare la soglia spietata delle tenebre.

Leucotea non tiene abbèntu: si siede, si alza, va a prendersi un caffè, esce, si affaccia sul mare, scruta l’orizzonte, rientra si risiede, si torce le mani e si rialza. Non parla con nessuno, non sorride a nessuno. Gentile e distante. Sono sempre al suo fianco, lei mi ignora, ma il suo velo bianco, di tanto in tanto, mi solletica il naso, come a dirmi: sono qui.

Eccoci in alto mare aperto. Mi alzo, mi stiro e la fisso con insistenza. Leucò dapprima rifugge il mio sguardo, poi fa cenno di sì con la testa:

- Sì, sono pronta – dice e, lentamente, saliamo sul punto più alto del ferribotti.

Da lì, con un lungo ululato, chiamo il Libéccio, che è un vento improvviso, rabbioso, pazzo e ladro. Leucotea si sporge sulla balaustra della prua. Il Libéccio cala come un ariete sulle onde, con forti raffiche alza una criniera maestosa di spuma. Il mare mugghia e biancheggia.

- Adesso Leucò – dico – è ora del gran salto. Il salto nel mare.

Dal traghetto suonano le sirene, viene dato l’allarme: uomo in mare. Anzi donna. Donna e cane in mare.

- Ma come fu? Eh? Come fu?

- Parevano du fantasmi, u cani jancu, idda pure janca, i capiddri, la veste, il velo. Tutto jancu  di spuma era il mare pure. Jancu e niuro di tenebra spissa.

- Arrivò una grande ondata e la fimmina saltò. Fici un gran saltuni, senza dire parola e appena toccò l’acqua, sparìu. La coprì un’onda scura.

- Il canazzo, saltò subito darrè, ma – e te lo giuro – non cadde in acqua, se lo pigghiò il vento.

- Il cane involato, la femmina sparita e poi appresso quel gran cornuto del Libéccio s’è ammansito.



Dal rapporto alla Capitaneria di Milazzo: Il mare è stato perlustrato palmo a palmo, ma abbiamo ritrovato solo un velo bianco tutto stracciato. Tuttavia, segnaliamo che dall’esame del registro passeggeri, non manca nessuno, ci sono tutti uomini e bestie e categoricamente si esclude la presenza di clandestini a bordo. Forse erano due fantasmi o forse in quella notte di mala tempesta, ai marinai si è confusa la vista. Del resto, questo mare è pieno di storie, ogni onda, ogni refolo ne racconta una.

 


Fonti

1.      Stefano Malatesta, Il cane che andava per mare, Neri Pozza, 2000:

https://www.google.it/books/edition/Il_cane_che_andava_per_mare/W8rbCgAAQBAJ?hl=en&gbpv=1&pg=PT2&printsec=frontcover

2.      G. Aurelio Privitera, Il ritorno del guerriero, Einaudi, 2005, p. 152: «Aíolos richiama superficialmente l’aggettivo aiólos, rapido o screziato: i due termini sono indipendenti. Eolo ha il potere di domare i venti ma non è né un dio né il signore dei venti che sono immortali. Questo potere gliel’ha dato Zeus: il Cronide lo fece custode dei venti, sia di arrestare sia di eccitare quello che vuole».

3.      Giulio Guidorizzi, Il mito Greco – Gli dèi, Meridiani Mondadori, 2009, p. 2021: «Naufrago tra le onde rabbiose del mare in tempesta Odisseo viene soccorso da una dea che gli appare improvvisamente accanto: è Ino Leucotea, la “Dea Bianca, la quale gli presta un velo magico che lo salverà dalla furia del mare. Ino però non era sempre stata una dea: lo divenne quando precipitò nel mare da una rupe insieme al figlioletto Melicerte. Durante questo gran salto, mentre cadeva, si compì la trasformazione e la donna mortale divenne un essere marino capace di materializzarsi come gabbiano o come spuma (…). Il “salto nel mare era un gesto simbolico frequente nei riti di passaggio. L’istante in cui dalla vertigine dell’abisso un corpo entra nel mare e quindi passa da un elemento all’altro, esprime simbolicamente il passaggio dello stadio della morte a quello della rinascita. Il momento del tuffo, quando il corpo ondeggia nell’aria già saccato dalla terra ma ancora non sprofondato nel nuovo elemento, è quello in cui avvengono in genere le metamorfosi. Così Ino divenne Leucotea e Melicerte fu chiamato Palemone».

4.      Omero, Odissea, traduzione G.A. Privitera, Mondadori, 2020, Libro, V, 325-350: «Un grande maroso lo portava con la corrente qua e là. Come quando per la pianura Borea d’autunno trascina i cardi, ed essi si tengono stretti e ammucchiati, così lo portavano i venti sul mare qua e là: ora Noto gettava la barca a Borea, che la spingesse, ora Euro l’abbandonava a Zefiro, che l’inseguisse. Lo scorse la figlia di Cadmo, Ino dalle belle caviglie, Leucotea, che era mortale un tempo, con voce umana, e ora tra i gorghi del mare ha in sorte onori divini. Ebbe pietà di Odisseo che errava soffrendo dolori: come una procellaria emerse a volo dall’acqua, si posò sulla barca e gli disse: (…) Ma tu fa così – non mi sembri uno sciocco: togliti questi vestiti, abbandona ai venti la zattera, e cerca d’arrivare a braccia, nuotando, nella terra dei Feaci, dove è destino che scampi. Ecco, stendi sotto il petto questo velo immortale: non aver timore di soffrire o morire. Ma appena toccherai con le mani la terra, scioglilo e gettalo subito nel mare scuro come il vino, molto lontano da terra e tu voltati via. Detto così, la dea gli diede il suo velo, e come una procellaria si immerse subito nel mare ondoso: la coprì l’onda scura».

5.      Ovidio, Le metamorfosi, a cura di Enrico Oddone, Bompiani, 1989, Libro, IV, 525: «Sopra la distesa marina, si erge una scogliera; la parte più bassa è profondamente erosa dai flutti e copre e protegge le onde dall’acqua del cielo; la parte più alta svetta e protende la fronte sull’aperto mare. Ino la raggiunge – la follia le aveva accresciuto le forze – e non trattenuta da nessun timore, sé getta con il suo carico nelle acque agitate: al tonfo l’acqua biancheggiò di schiuma».

6.      Curzio Malaparte, Maledetti Toscani, Vallecchi, 1969: «Dal mare soffia il libeccio, che è un vento improvviso violento, pazzo e ladro. Vien dal Marocco, vien dalla Spagna, è un vento scappato di galera, e si rifà come può della lunga prigionia. Piomba come un ariete sulle onde sparse, le cozza, le raduna, le spinge, simili a un gregge di pecore ammattite, contro i lidi bianchi, le scogliere purpuree, i moli neri di carbone. Cala come un falco sulle vele, e le lacera: lembi di vela volano via nel turbine, come colombe. Il suo sibilo lungo e rabbioso, tagliente come un falcetto, recide l'erba dei pascoli marini, dove ruzzano branchi di cavalli dalla criniera di spuma, che il sibilo improvviso sparpaglia di galoppo sul mare verde striato di lunghi nitriti bianchi. L'orizzonte si spezza, dalle prigioni d'Algeria e di Spagna evadono a frotte i prigionieri seminudi, urlanti di gioia. Dai fianchi dei velieri infranti dalla bufera, caccian fuori la testa ciurme ubriache, la lingua screpolata e gonfia dallo scorbuto. Torme di cani in furore latrano su per i monti e in fondo alle valli che fan le onde infuriate (…). Lo scirocco soffia dall'Elba, soffia dall'Isola del Giglio, soffia dall'inferno marino, un vento molle e sudato, un soffio pigro e bighellone, che girella per le strade lasciando dietro di sé un lezzo di tabacco e di vino, di pesce marcio e di catrame. “Fete di formaggio” dicono in Sicilia dello scirocco. Un vento panciuto, grinzoso, tutto ciccia 116 e pelle, dalle immense mani pelose che ti tappan la bocca, ti accarezzano le guance, ti scivolano lungo le braccia, lungo il filo della schiena: e ti rimane sul corpo un molle solco sudaticcio».

7.      Mimmo Rando, Il mondo illuminato, Rubettino, 2019 / Omero al Faro, Rubettino, 2016.

8.      Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Mondadori, 1972.

9.      Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, 2004.